claudia botta
Artista, Bologna, Italia, iscritta 11 anni fa
In-naturale si basa sulla manipolazione e modificazione di fiori
veri, ai quali aggiungo o sostituisco alcune parti, inserendo
oggetti completamente estranei alla natura: il risultato viene
poi fotografato per documentare e fissare nel tempo queste
microsculture. Gli interventi attuati sono quasi impercettibili
a prima vista, ma una didascalia indica e svela tutti gli “ingredienti”
utilizzati imponendo allo spettatore uno sguardo più
attento. A questo punto, appare chiaro che esiste una contraffazione
del fiore realizzata attraverso l’uso di materiali artificiali,
che sono tranquillamente colti come naturali nonostante
l’immagine fotografica sia notevolmente ingrandita. Ne nasce
uno stupore, ma anche il disagio di fronte ad una perdita, constatando
quanto ci si sia allontanati dalla natura, tanto da viverla
superficialmente e in modo scontato, non distinguendo
oramai più ciò che è vero da ciò che è finto, ciò che è mutevole
da ciò che è inerte.
All’inizio, seppure i fiori mi intrigassero, ero un po’ restia a
considerarli come un possibile soggetto, in quanto mi sembravano
troppo rappacificanti, troppo muliebri, anche un po’
banali. Nonostante queste considerazioni però, come un insetto
ne ero continuamente attratta, soprattutto per la perfetta
varietà delle forme e la forza dei loro colori. Inoltre dicevo
a me stessa, che l’attenzione per la natura considerata nel
dettaglio e nella sua infinita ricchezza e bellezza, appartiene
naturalmente al mondo femminile, in quanto le donne hanno
un rapporto reale e tangibile con i prodotti della terra. Infatti,
tra le prime nature morte seicentesche, primeggiano quelle
ad opera di pittrici, quali Fede Galizia, Louise Moillon, Clara
Peters, che scoprirono presto come il nuovo genere ben si
adattava alla loro condizione sociale.
Inoltre non potevo negare l’interessante ed indiscutibile valenza
simbolica dei fiori, dato che sono da sempre legati al
concetto di impermanenza dell’esistenza. Mentre, animata da
una vena ecologista ne costruivo di enormi fatti di zucchero, perché potessero servire da stazione di sosta per le api ormai in estinzione, piano, piano sono passata a considerare i fiori
veri, prima secchi poi freschi. Ben presto mi sono resa conto
di quanto fossero adatti a rappresentare il tema della decadenza
della nostra società, in una chiave apparentemente più
edulcorata e non necessariamente lacerante e drammatica.
Essendo il fiore, simbolo per antonomasia di purezza incorrotta,
semplicità e naturalezza, fin da subito si è ben prestato
nella mia ricerca come soggetto ottimale per un gioco illusorio,
e per la veicolazione insospettata di un artificio, di una
contraffazione. Anche perché è bello e accattivante. Mutarlo
in alcune parti collegava il mio lavoro a tutta una serie di rimandi
circa la volontà di potenza propria della specie umana
e ad una serie di espedienti, che il sistema del profitto applica
ai suoi prodotti.
Nonostante prediliga l’aspetto simbolico della pittura, ho scelto
la fotografia, perché restituisce più fedelmente la realtà, dando
ad una natura morta, un’ulteriore valenza di morte, tema questo,
che ho sempre trattato in tutto il mio percorso artistico.
La fotografia mi permette inoltre, grazie ad un taglio da documentazione
quasi laboratoriale, di calibrare la qualità dell’immagine
dandole un aspetto volutamente non troppo leccato,
potendo così restare in un ambito più concettuale, dove il progetto
e l’oggetto sono superiori come importanza al risultato
estetico.
Così, noncurante della diatriba tra quale arte detenga la supremazia
tra pittura e fotografia, io mi limito ad una scelta
intermedia. Infatti, prima agisco come un artista plastico, perché
modello, dipingo, fondo i diversi materiali che mi servono
per ottenere un dato effetto, o un petalo che sembri uguale ad
uno vero. Poi come un fotografo, scatto per oggettivare il mio
artificio, avvalendomi della presunta fedeltà della fotografia di
immortalare realisticamente i soggetti ripresi.
Ricostruire un pistillo o una parte di fiore, tanto che sembrino assolutamente credibili, appartiene forse anche alla “ubris” dell’uomo di volersi sostituire a Dio, pur osannandolo con la
propria opera, ed è la pretesa dell’artista di ricreare il creato.
La natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte, e a sua
volta l’arte non può essere chiamata bella se non quando noi,
pur essendo consci che è arte, la consideriamo come natura
(Kant).
Cimentarmi in queste mutazioni, ritoccare una corolla, aggiungere
delle spine, mi dà il brivido del chirurgo plastico, o
l’assurda esagerazione di Lucifero, anche per la spiccata forza
sessuale che ogni fiore racchiude in sé.
Nelle mie contaminazioni però non ho mai desiderato spingermi
al livello di alcuni bio-artisti, che lavorano agendo all’origine,
ovvero modificando il DNA di alcuni vegetali per trasformarne
l’aspetto; anche se la loro ricerca ovviamente mi
affascina . Io voglio trattare un tipo di sofisticazione più vicina
a quella che incontriamo tutti i giorni nel cibo o nei materiali
che tocchiamo. Per questo uso colle, smalti, conservanti, cere,
plastiche, agenti chimici, cosmetici, vernici, medicine, elementi
organici, parti vegetali o animali, ecc...
Fotografo i miei fiori modificati anche una volta appassiti, documentando
come le parti artificiali rimangano intatte rispetto
al resto, cosa che mi porta inevitabilmente a pensare alle
protesi nei cadaveri, agli arti artificiali intatti su corpi decomposti
e a tutti i seni rifatti che dureranno oltre la bellezza svanita;
lavorare intorno ai fiori trasformandoli, mi ha permesso
una dimensione raccolta, rivolta al particolare e mi ha graziato
di un contatto contemplativo e al tempo stesso palpitante.
Chissà, forse un giorno, potrei pensare di scrivere anch’io sotto
ognuna di queste opere: “Ceci n’est pas une fleur”…
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celeste,