Se ci pensiamo bene, ripercorrendo la storia delle arti e dei mestieri, la memoria lunga del pittore sa bene quante volte la fotografia (fin dal suo nascere) ha sorpreso e colpito a tradimento la madre e il padre di tutte immagini: la pittura e il disegno. E questi, per non essere da meno, nel tempo, hanno cercato di fare altrettanto per riscattare la propria subalternità nell’ecosistema dei linguaggi, e così questi “mezzi” si sono inseguiti, ignorati, amati, traditi, e riamati tante volte nel corso della storia, vuoi per rappresentare il simiglio nella figura (il ritratto) vuoi per catturare (si dice spesso così: “catturare”, quasi si trattasse di un’atto di predazione della realtà) le figure, il paesaggio, gli oggetti, lo spazio e ogni cosa che lo abita. E così a me, pittore, tocca “sfatare” il pregiudizio di scuola che assegna agli impressionisti l’originale primato di una rappresentazione naturalistica vibrante del paesaggio sganciata dal debito con la neonata fotografia: l’idea modernista e romantica al tempo stesso del pittore en plain air che s’impressiona, appunto, della luce e dei colori della realtà, senza svelare però (per pudore di mestiere e di casta) che senza il taglio compositivo imprestato dalla fotografia non avrebbe dato vita a quelle immagini che scuotevano la rigida scatola prospettica e concettuale del rinascimento, delle sue complicazioni barocche, e del classicismo moderno; scatole perfette nella mente e spesso meravigliosamente erronee nella realtà. É stata la fotografia a dare a quei pittori (geniali) il coraggio e il supporto necessario a portare nella pittura le inquadrature della fotografia nel ritratto e nel paesaggio e a poter ridare a quell’antico mestiere una nuova aspettativa di vita e nuovi sviluppi. Poi verranno anche i pittori che dichiarano guerra alla fotografia sul suo stesso terreno: quello della verisimiglianza assoluta, petulante, in certi casi insopportabile (penso agli iperrealisti puri), che tradiscono la pittura consegnandola nuda e inerme ai “piaceri” del mezzo fotografico, lasciando però sullo sfondo la domanda insoluta del pittore al fotografo: -quanto ti devo? Bene. Possiamo qui dire senza tema di smentita che Giuseppe Alletto non ruba, non ha contratto debiti insanabili con la fotografia, nemmeno l’uso ricorrente dell’inquadratura-ritratto in primissimo piano - che la fotografia ha “ceduto” da tempo alla pittura, in cambio di non si sa bene cosa. I suoi ritratti, questo suo ideale olimpo degli dei del nostro tempo, prendono in prestito e restituiscono con eleganza alla fotografia ciò che gli è proprio, ovvero la sua retinica certezza di stupire ancora gli occhi insonni di questo nostro tempo inquieto e insaziabile di immagini. Oggi, nell’era dell’immagine digitale, si assiste in tutto il mondo ad una specie di scambio disinibito della sensibilità fotografica con quella pittorica. Immagino ironicamente il pittore e il fotografo su due lettini di ospedale che si trasfondono il plasma dell’immagine e dei suoi segreti codici, pur di sopravvivere entrambi, in una sorta di pace fredda, non dichiarata ma durevole, che almeno non fa soccombere nessuno dei due in quell’ecosistema dei linguaggi di cui sopra. E così assistiamo a tanta fotografia che ruba l’anima alla pittura di ogni tempo, e tanta pittura che ruba il corpo alla fotografia. Ma oggi, qui, in questo non luogo, cupo e spettrale che Giuseppe Alletto mette in scena per presentare i suoi soggetti (Pirandello, Silvia Plath, Sciascia, De Chirico, Baudelaire, Guttuso…), selezionandoli tra quelle identità che hanno “scritto” pagine vitali nella cultura e nell’arte, restituendo il “prestito” fotografico con gli interessi “maturati” di una raffinatezza estetizzante che ci rimanda ad un mondo simbolista di cui furono (e sono) Maestri Rops, Bellmer… e l’infernale (nostro contemporaneo) John Constantine Hellblazer. Una trasfigurazione che, lasciandoci l’illusione di mantenere intatti i tratti somatici, li trasferisce però nella dimensione di un’Ade immaginario, mostrandoci il demone individuale che nessun ritratto fotografico dei personaggi scelti dall’artista ci ha mai fatto sospettare. Bene, lo fa oggi Giuseppe Alletto per noi, con la sua magnifica tecnica grafica. In questi disegni, perfino il nostro Sciascia, come clone malvagio del suo personaggio in vita (più Sade che Voltaire!), suo alter ego incattivito per non essere più di questo mondo dove poter dire sempre “l’ultima parola”, sembra irrigidirsi in una smorfia di violenza pronta a esplodere e mandare in mille pezzi il suo pessimismo della ragione che tanto ha elargito nella sua opera di letterato illustre. Chi è costui che Alletto ci presenta sotto le sue mentite spoglie? E chi sarà mai veramente quel De Chirico lì, pietrificato in una smorfia di sdegno come una stauta di neve sporca pronta a sciogliersi sotto i raggi obliqui della luce? E il Baudelaire non-morto che fa sterzare bruscamente nell’orrore i sembianti che lo accompagnano in questa rassegna di volti? Non lo sappiamo. Di certo questi “ritratti” sono i fantocci che il ventriloquo Alletto fa “muovere” a suo piacimento per interpretare il suo personale monologo noire sul simulacro figurabile del ritratto. Non sono colti nella loro espressione vitale, sono loro che, passato il varco dell’esistenza, ritornano con risentimento e inquietudine al cospetto dei viventi, grazie alla visione medianica e sensitiva del Nostro artista che così bene li ha attratti (a-tratti) nella sua matita di ragno e ritratti per noi, per la nostra immaginazione. Alfonso Leto