Tell me not in mournful numbers Life is but an empty dream For the soul is dead that slumbers And things are not what they seem […] Con questa quartina di Longfellow sui vetri della show room giocammo, tra l’altro, una delle prime carte nel Great Game del Big Sleep. Suggerendo che sonnecchiare, come facciamo di notte in notte, con mille interferenze ostinate della veglia, e stati preconsci sempre incombenti, e sopravvenienze di resti diurni, e motivi ricorrenti delle oneste angosce morali quotidiane, è veramente prendere in prestito alla morte più prosaica che ci vogliono riservare quale compimento. Una disattivazione che comincia con la vita repressa, con la disoccupazione, con la riduzione consumistica delle potenzialità di godimento ed espressione. Con il prolungamento inutile del tempo del sopravvivere che nulla ha a che fare con il dilatarsi dell’effettiva e fruttifera esperienza del vivere ciò che è. Non c’è dubbio che a farci crepare così non ci vorrà molto studio. Ma noi si vuole non crepare ma morire comme il faut. Al termine, se non suonasse enfatico, di un destino: una traiettoria protagonistica in cui almeno una volta ci sia stata parola e segno nostri! E quindi a quella morte prendere a prestito: dormire in modo profondo, intenso, deprivante. Cioè far emergere, in quello spazio di annichilimento coscienziale, un altro sguardo, un’altra voce. Il nulla è lo scrigno dell’essere e sotto la coscienza c’è un’altra parola. Una scena dove occhi e parole pullulano e non c’è un chi che ne sia padrone. Tornare ogni notte da quella dimensione, forse supera quanto ci è possibile; accedervi artificialmente, è altra questione e non vi è nessuna certezza che si approdi così alla stessa sponda. Ma lasciarsi scivolare, quando ci chiama, al suo interno? Autorizzare noi stessi a intermettere, dormendo, una o più riserve di quella censura che abbiamo introiettato come incorporazione dell’autosfruttamento capitalistico? Impareremo a dormire per prendere a prestito il tempo dalla morte vera o dal crepare della nostra quotidiana alienazione? Viene da suggerire che sarà più facile bene morire in ogni anticipante minuto del nostro oggi se si sarà ben vissuto: se cioè avremo dato spazio, momento dopo momento, al sospetto sorridente che le cose non sono quello che sembrano. Le corrispondenze simboliche e formali autorizzano a giocare le forme del mondo in molti modi diversi e le persone non sono oggetti da distribuire in schemi ma fonti di prospettive a cui possiamo attingere e a cui possiamo donare. Allora riempiamo il mondo di gesti e segni per lasciare un’eredità! Diamo loro vigore perché sappiano prendere corpo nel mondo intorno a noi. Che ciò abbia allora un’eco e nel sogno folle di una umanizzazione massicciadell’assurdità inutile dell’essere si procrastini… forse, alla fine, cristallizzi! We happy few…: a noi importa, altro non serve se non la dignità, la forma, la familiarità confidente con le regole eleganti del nostro grand jeu. C’è un teatro, certo, e noi siamo insieme la scena, il doppio, la regia. E lo spettatore critico, curioso, plurale. Che ciò ci salvi dall’individualismo acquisitivo, dall’edonismo fine a se stesso e dalla presunzione dell’autosufficienza. Perciò abbandoniamoci al grande sonno.