Il progetto Muscles nasce dal mio modo di vivere il conflittuale rapporto di amore e odio che da sempre mi lega agli Stati Uniti, alla loro storia e alla loro cultura. Con questa serie di opere, dunque, non intendo né denunciare né celebrare in alcun modo questo Paese o il cosiddetto American way of life, ma semplicemente mostrare come i miei sensi percepiscono ciò che l'America rappresenta - o vuole rappresentare. Ogni opera si sviluppa in tre fasi, su superfici sovrapposte, attraverso tre materiali diversi: ferro, plastica, alluminio; i tre materiali hanno valori simbolici precisi e su tutte le superfici sono dipinte, in acrilico, tre figure diverse: un particolare della bandiera americana, un'automobile e un'arma. La bandiera americana - oltre ad essere un'evidente citazione dell'opera Flag di Jasper Johns (1954-55) - rappresenta la Costituzione, le fondamenta dello Stato Americano, meglio ancora lo spirito di Unione sintetizzato in un emblema presente in modo ripetitivo e quasi ossessivo non solo nei luoghi istituzionali, bensì riprodotto e visibile ovunque, in ogni forma e dimensione (e su qualsiasi materiale), in ogni grande città o piccolo paese in cui ci si trovi. La Star-Spangled Banner o Stars and Stripes, comunque la si voglia chiamare, in una parola è la Forza degli Stati Uniti: è dipinta su una superficie di ferro, l'elemento naturale che più di ogni altro proietta un'immagine di compattezza, solidità e sicurezza. Questi valori, percepiti come reali dagli americani stessi, non sono sufficienti per promuovere - ma sarebbe meglio usare il termine "imporre" - l'ideale di libertà e intraprendenza che li caratterizza; per ottenere un impatto a più ampio raggio, su scala mondiale, occorre dimostrare la propria forza al di fuori dei confini per mezzo del culto dell'immagine - o creando immagini di culto - attraverso ciò che comunemente viene definito "propaganda". Le automobili conosciute come muscle-cars, prodotte negli Stati Uniti tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70 e celebrate in numerosi film dell'epoca - Bullitt (1968), Vanishing point (1971) o Gone in 60 seconds (1974), solo per citarne alcuni - vogliono essere esattamente questo, congegni meccanici che consentono il movimento rapido, rumoroso, ingombrante, che sfruttando la cassa di risonanza del cinema Hollywoodiano, manifestano la propria potenza di fronte al resto del pianeta e, contemporaneamente, enfatizzano agli occhi dell'americano la propria superiorità. Queste macchine, e tutta la cinematografia che le venera, sono solo dei "simulacri", per citare Baudrillard: oggetti fittizi, dunque, che risultano veri pur non avendo alcuna relazione con la realtà. La plastica, materiale sintetico per eccellenza mi è sembrata dunque una scelta quasi obbligata, per rappresentare la finzione, ma al contempo l'affermazione di un simbolismo così efficace. Ma la realtà esiste. E ciò che più colpisce e ferisce - almeno nell'immediato - è quello che si trova in superficie: può essere un odore, un colore o un suono; il rapporto che gli americani hanno con le armi - e di conseguenza con la guerra - è indubbiamente il tema che desta maggiori attenzioni e preoccupazioni. Che siano per difesa o per attacco, le armi sono un elemento inscindibile dall'essere americano e nonostante il luogo comune secondo il quale gli Stati Uniti sarebbero il "Paese delle grandi contraddizioni", io non noto alcuna antinomia tra la passione per i proiettili e quanto descritto nelle righe precedenti, anzi, la trovo una logica conseguenza. Per questo motivo, lo strato che avvolge tutta l'opera - o il layer superiore per usare una terminologia grafico/digitale - è in alluminio, materiale leggero e resistente, come dovrebbe essere un'arma, su cui viene rappresentato un mitra, un proiettile, una bomba o una pistola.