Un tema come quello dei campi di sterminio, dei campi di distruzione, dei campi di concentramento, dei campi di lavoro, dei campi di rieducazione che hanno segnato la storia del secolo appena trascorso e che, incredibilmente, continuano ad esistere ancora oggi, non è certamente un tema facile. Innanzitutto perché un rischio è quello di suscitare la reazione del “è già stato detto tutto” ma, ancora più concreto, è il rischio di un rifiuto aprioristico, diffuso tra chi non vuole nemmeno provare a misurarsi con quanto è accaduto. Probabilmente, nel rifiutare di confrontarsi con un tema simile vi è il timore di doversi domandare come possano delle persone, che comunque conservano larghi tratti di umanità esteriore, covare dentro sé stesse motivazioni e pulsioni così efferate e come possano avere vinto freni inibitori che pure, sicuramente, devono avere posseduto. E, ancora, come possano avere condiviso quanto hanno fatto con i propri cari. E con decine, centinaia, migliaia di estranei accomunati da una missione tanto perversa. Il volere sottolineare le assurdità di un mondo che nei fatti spesso si rivela essere il negativo dell’immagine che tutti vorremmo vedere è una scelta che appare necessitata dall’urgenza di tentare, attraverso la creazione artistica, di reintrodurre in una prospettiva umana esperienze che appaiono la negazione assoluta del concetto di umanità genericamente inteso, dimenticando che i mostri che compivano atti orribili erano comunque uomini. In questo sovvertimento assoluto di ogni valore, meccanismo funzionale alla massimizzazione della volontà di dominio che, ovviamente, più facilmente si manifesta nei confronti di chi viene descritto come diverso. La materia che elabora Giuseppe Tattarletti è densa e lo è al punto da indurlo ad affrontarla con tutti gli strumenti di cui dispone: la pittura, di un espressionismo che tende all’astratto, la scultura che, nei materiali porge freddezza e povertà; l’architettura, in un progetto di un monumento in cui anche le regole del “costruire” sono simbolicamente sconvolte. Lo spessore delle sue opere non deriva però solamente dalla scelta dei temi che affronta, che ben potrebbero essere elaborati, come difatti sovente è accaduto, in un’ottica meramente consolatoria, ma dallo stratificarsi della miriade di sensazioni che, lo si avverte chiaramente, lo scuotono intimamente, sensazioni che vuole trasmettere con le sue opere, che sono impasti di trame e di segni che ci fanno intuire il suo punto di vista sui quesiti essenziali per ogni persona ma che, soprattutto, vogliono spingerci a chiarire quale sia il nostro. A. Piras