I movimenti artistici che a partire dai primi del Novecento si pongono la questione di deindividualizzare – allo scopo di universalizzare e quindi nella speranza di democratizzare - i linguaggi visivi – dall’olandese De Stijl al tedesco Bauhaus –fanno sempre corrispondere tale esigenza ad una radicale razionalizzazione delle forme, condotta all’insegna della regolarità e della semplificazione geometriche. I modi del Gotico sono invece comunemente e storicamente considerati – forse “di peggio” c’è solo il Barocco – quanto di più antitetico si possa concepire rispetto ad un linguaggio fondato sulla misura e l’equilibrio, tanto che dalla loro aspra ricusazione – lo si sa – prende avvio la stagione rinascimentale, eppure –malgradoil loro tracotante romanticismo, la loro tensione verso un assoluto che però, in quanto appunto tensione, tutto istituisce tranne che una rappresentazione sincronica di esso, bensì si appunta su di una sorta di teleologia della percezione – essi sono assolutamente il prodotto di una creatività iperindividuale, in quanto in nessun modo riferibile all’invenzione di un unico soggetto più o meno illuminato, ma inconcepibile al di fuori di un presumibilmente lungo, discontinuo e complesso percorso di costruzione sommatoria di singolarità, a posteriori leggibilenei termini di una sintesi che coincidecon il volto riconoscibile dello “spirito del tempo”. È così che – in considerazione delle effettive rispettive genesi storiche – il Gotico potrebbepiù adeguatamente essere descritto come un linguaggio realmente collettivo ma dai tratti soggettivi, laddoveil modernismo razionalista non sarebbe altro che una elaborazione individuale – o al più condotta da pochi - di un linguaggio che, forte dell’espunzione di ogni espressione non mediata, aspirerebbe ad un’utenza generalizzata che è più da venire che operante nella prassi presente. Partendo dalla consapevolezza dell’autorialità plurale – “comune” si direbbe oggi, adoperando un aggettivo ormai particolarmente in voga anche nel dibattito pubblico generalista, oltre che in certa letteratura giuridica e filosofica – e di altri aspetti che storicamente connotano la maniera gotica, l’operazione di Amedeo Sanzonediviene evidente nei suoi arditi slittamenti. Non solo infatti, quasi compiendo – probabilmente in maniera del tutto inconsapevole - un processo inverso a quello auspicato da De Stijlo dalla Bauhaus -, il tratto più emblematico del Gotico – l’arco archiacuto – prende nella sua opera molteplici varianti di dimensione, numero e colore, facendo assurgere ad una sorta di logo-firma d’artista ready-made quella che è una forma irriducibile ad una singola paternità originaria, ma quest’ultima – notoriamente connessa a grandezze monumentali ed a processi costruttivi artigianali - appare trasposta su di una scala a misura d’uomo e nei materiali tipici della produzione industriale in serie – paradigma già adottato in scultura dal Minimalismo, a partire dalla metà degli anni sessanta, il cui riferimento formale resta però naturalmente la perpendicolarità del modernismo razionalista, ché pure per altri versi mette in crisi, fattore che aggiunge alle opere di Sanzone un’ulteriore elemento cortocircuitante. Ma come si può interpretare dunque tale sorprendente traduzione di forme simboliche di un passato tutto sommato remoto nel nostro pur inquieto presente? Cosa possono dire, in altre parole, i segni tipici di un’epoca che per molti versi a noi appare distante davvero anni luce dalla complessità – forse del resto più sciagurata che altro – di un mondo crescentemente imbevuto di umori apocalittici? È come se Sanzone rilevasse quei mai soppressi slanci ed aneliti verso una dimensione radicalmente altra, irrelata e sovrasensibile – quella dimensione che non abbiamo mai visto eppure siamo pronti a giurare che c’è e forti di questa consapevolezza sappiamo che tutto ciò che ci circonda non potrà mai placare la sete del nostro essere -, ma li cogliesse appunto nel nostro quotidiano - piuttosto che collocarli, secondo il paradigma gotico della immensa Cattedrale, glorificazione di Dio ed orgoglio della comunità cittadina, in una prospettiva in cui l’occhio si perde -, esortandoci così a comprendere quanto la trascendenza non si trovi solo al di là delle nuvole, bensì potenzialmente in ogni piega ed anfratto dell’esistenza ed a metterci in cerca di essa a nostra volta, cominciando dal nostro spazio più prossimo. Stefano Taccone