Brutal
quella fotografica, diffusa così capillarmente
e così legata al desiderio individuale?
[…]
tutto quanto non rientrerà
in questo corpus verrà respinto
in un limbo, non solo di insignificanza,
ma anche di miserabilità”.
(Franco Vaccari, 1979)
L’automatismo del mezzo fotografico, fin dagli esordi, è stato spettro di una mancanza di riconoscibilità estetica e di mercato. Il controllo sul processo fotografico ha rappresentato il solo approccio capace di “traghettare” la fotografia verso il tanto agognato mercato dell’arte. Presto si è reso necessario stabilire dei canoni al fine di controllare una produzione ampiamente diffusa ed estremamente sfuggente e realizzata spesso al di fuori di un contesto professionale, per puro piacere o interesse personale. La storiografia dell’arte, o della fotografia stessa, (ma, si potrebbe dire, la storiografia in generale), trasmette ai posteri i nomi dei “grandi”, prevalentemente da un punto di vista maschile, ma soprattutto “borghese”. I canoni estetici attraverso i quali stabilire il valore o il significato di un’immagine fotografica hanno attinto inizialmente dai modelli della pittura, per poi essere gradualmente messi in discussione nel Novecento, finendo comunque per dialogare con il mercato delle immagini.
Secondo Jean Baudrillard, la logica di classe non si realizza più attraverso il controllo dei mezzi di produzione, ma controllando il processo di significazione. Seguendo questa logica, il mercato della fotografia può costituire una tendenza al controllo totale dei segni.
Brutal vuole porsi come una produzione emarginata, autentica e sopravvissuta. Libertà di presentare la realtà affrancandosi da processi di riconoscimento, ritrovando un modo di testimoniare la vita, ricordandosi che il mezzo fotografico non conosce “graduatorie di segni”.
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