Il Teatro del bailo

Il Teatro del bailo

Se fosse la danza che – pur impropriamente – evoca il titolo, in assonanza con l’ispanico idioma che l’italiano traduce in “ballo”, sarebbe di certo quella macabra dei tanti Maestri medioevali di Trionfi della Morte, di cui sembra in effetti sopravvivere qui la stessa umanità in bilico tra l’effimera ricerca del piacere terreno e la gravità del proprio ineludibile destino.

Ma non è questo il senso dell’opera di Gianluca Cavallo, a metà strada tra il murales ed un polittico di antica e sapiente tradizione artigiana. C’è piuttosto un rimando quasi immediato alle atmosfere solari e chiassose di Guttuso, seppure stemperato nei toni cromatici che qui si raffreddano nell’azzurro grigiastro del fondo, a riallacciare quel dialogo mai del tutto interrotto con il Rinascimento e con il suo eterno Umanesimo, che parte da Antonello da Messina e arriva fino a Canaletto ed oltre.

Ed è proprio di questo che parliamo, in definitiva. Più ci accostiamo al Teatro del Bailo, ne ascoltiamo le voci e ne scrutiamo le ombre, più ci rendiamo conto di come l’opera di Cavallo intenda proporsi come continuazione ideale della grande tradizione lagunare di pittura rinascimentale: da Gentile Bellini a Carpaccio, da Tintoretto ai vedutisti del Settecento. Strepitosi affreschi di una società mutevole e dinamica, stretta attorno alle proprie radici e tradizioni eppure aperta all’esotico ed al lontano come nessuna altra realtà occidentale. Volti e fogge diverse, particolari ‘nascosti’ che si svelano all’occhio solo dopo ripetuti sguardi, quasi a costringerci ad andare oltre le nostre barriere interiori e a smantellare le certezze di un quotidiano forse rassicurante ma certamente troppo angusto e miope.

I grandi teleri del Quattrocento lagunare, con le loro fantastiche sfilate di ambasciatori orientali a San Marco, rivivono con Cavallo in questo teatro personalissimo del Bailo - figura storica dell’ambasciatore della Serenissima presso i Turchi – rimescolando cifre e simboli di una cultura cosmopolita e meticcia in cui convivono cupole cristiane e caravanserragli, cardinali e muftì, donne velate con altre in bikini, senza prevaricazioni né timori di guerre sante o santissime. Quasi a voler ricomporre i pezzi di una storia andata in frantumi per la leggerezza colpevole di mani maldestre cui era stata affidata, Cavallo restituisce il quadro generale secondo una sequenza dei sei pannelli che l’osservatore può idealmente cambiare, invertendo l’ordine di ciascuno di essi a suo piacimento. E il racconto si fa così ciclico e infinito, scevro da qualunque forma di gerarchia e autorità, complesso ma mai complicato né ostico.

Nel Teatro del Bailo ritroviamo i volti di una umanità sopravvissuta a se stessa, ai disastri di mille guerre ed agli orrori da esse prodotti, così che abbondano le maschere a metà strada tra il primitivismo di Picasso e la pantomima del Carnevale in Laguna; e c’è perfino la lampadina che pendeva inerte dal soffitto nella casa di Guernica, ma capovolta qui e come ristabilita nella sua funzione di illuminare (le menti ancor prima che le stanze). Mentre un bucranio di classica memoria fa capolino sulla destra, misura del tempo terreno e memento della sua fugacità. A testa in giù sta l’angelo nel pannello in alto a sinistra, pronto a discendere in caso di bisogno, come ci insegna la pittura del Seicento controriformista di Caravaggio e degli altri. Ma non ce ne sarà bisogno, forse.

Forse l’umanità potrà davvero riuscire a sbrigarsela da sola qui sulla terra, nel gran Teatro del Bailo che è la storia: nostra e degli altri tutti.

È possibile che sia l’arte a ritrovare il filo del discorso interrotto, a partire da quei fonemi che hanno fatto grande la pittura del Rinascimento italico e segnatamente lagunare.

Quest’opera vuole essere l’omaggio di Gianluca Cavallo a Venezia, alla sua grande pittura storica ed al cosmopolitismo culturale che ha caratterizzato la città nei secoli. Il suo Teatro del Bailo è un moderno telero di antica tradizione, come la tecnica sapiente con cui è realizzato e le dimensioni che ne connotano il genere.

Ma è anche un’opera di inedita avanguardia pittorica, rivoluzionaria al punto da scardinare ogni presunta decadenza dell’arte figurativa in favore di mezzi e linguaggi alternativi, rivendicandone invece con forza il primato su tutte le forme di comunicazione ed espressione.

È, in fondo, un’affascinante e visionaria provocazione sul futuro dell’Arte, di cui Cavallo recupera con forza le matrici storiche ed iconografiche per ricomporne – se non proprio la fisionomia o l’identikit – la logica sottesa al linguaggio, che è al tempo stesso sintassi e semantica.

Fulvia Strano

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