china land, 皇帝的城堡 Huángdì de chéngbǎo, (castello dell'imperatore)
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Prato è qui ma altrove
Steve Bisson
Giovanni Presutti ci ha abituato a questo e ad altro con le sue fotografie, con i suoi costrutti
immaginari che spingono ad attraversare quel velo sottile che separa la realtà dall'illusione. A
dislocare la percezione volendo semplificare. Egli fabbrica pseudomondi insomma, nei quali
ritroviamo i tratti di una condizione umana di finzione, dipendenza, assuefazione, angoscia e
inibizione.
In China Land, il suo sguardo si fa ulteriormente ucronico. Siamo a Prato, il luogo in Europa con la
più alta concentrazione di abitanti cinesi in rapporto al resto della popolazione. Qui a partire dagli
anni Novanta è un brulicare crescente e incessante di migranti clandestini. Dicono che arrivano da
Wenzhou. Da quelli parti si lavora come macchine. In questo assomigliano agli imprenditori locali
e per un po' si mescolano con le loro attività. Aprono piccoli laboratori e trafficano con i tessuti
senza badare troppo alle norme igieniche e di sicurezza. Fino alla crisi mondiale che mette in
ginocchio i pratesi e lascia ai cinesi il dominio sulla città, la supremazia dei simboli culturali. In
breve tempo la comunità cinese si appropria del centro storico e impone la propria lingua e
costumi, tappezzando di insegne colorate gli edifici. Il duomo è trasformato in un centro
commerciale, nel castello dell'imperatore trova spazio un ristorante che serve ravioli al vapore.
Sono presi di mira soprattutto i luoghi di culto, San Domenico diviene un'agenzia matrimoniale e
San Francesco ospita corsi di pronto moda. Le strade di notte sono pressoché deserte e insiste il
coprifuoco nei giorni feriali.
In questa prospettiva dickiana dall'esito incerto e sottilmente ironica, si colloca il pensiero di
Presutti. Forse sta a chi guarda leggerci dentro, perchè in questo come in altri suoi progetti
personali non c'è storia. E’ il processo, nelle varie derive, a costituirsi come vero organismo
narrativo. Con China Land Presutti dimostra di voler consolidare quella isotopia di appartenenza,
quella coerenza semantica che lo avvicina alle corde della fantascienza. Egli è lontano da qualsiasi
presunzione di obiettività modernista.
Il fotografo pare non curarsi dell'autenticità del reale e quasi inconsapevolmente fare il verso a
Susan Sontag: «I cinesi si oppongono allo smembramento fotografico della realtà. Non usano primi
piani. Persino delle antichità e delle opere d'arte che si vendono nei musei non mostrano mai
particolari: il soggetto è sempre fotografato anteriormente, centrato, illuminato in maniera
uniforme, intero». E' proprio dei particolari invece che si nutre l'intento decostruttivo di Presutti,
che marca il suo territorio attraverso piccole addizioni e sottrazioni di senso. Le insegne
commerciali, soprattutto, divenute le ultime bandiere in una clima di dissoluzione geografica, di
simulazioni e marionette tecnologiche, di retrogusti pubblicitari. Scriveva ancora Sontag «ciò che
nella realtà è separato, le immagini lo congiungono» ed è questo l'esperimento ripetuto
minuziosamente da Presutti, ponendoci diversamente di fronte al reale, alle nevrosi e ai bisogni
mascherati dell'uomo contemporaneo, ai non luoghi del consumo, alle paure del diverso che è,
prima ancora, dentro di noi.
Il tempo si sfalda, l'avvenire è già immediatamente presente. La fotografia ingrandisce la realtà.
Sta allo spettatore invadere il palcoscenico. Presutti è maledettamente postmoderno nel muoversi
lungo il confine tra documentario e finzione. I suoi immaginari ibridi e di sintesi non attestano la
realtà ma ne ricalcano il simulacro. Una messa in scena quasi cinematografica, uno spaziotemporale
inedito, paradossale, al limite dell’estraneo. Prato tuttavia è qualcosa di più di un’altra
“China Town”. Come altri autori dichiaratamente postmoderni nelle loro intenzioni formali - Jeff
Wall, Stan Douglas o Gregory Crewdson per citarne solo alcuni - Presutti svela, dietro
un’apparente artificiosità, una discreta attenzione alla causa sociale e quindi significatività del
mezzo visivo.
Prato è qui ma altrove. E’ forse questa capacità di “non vedere”, come un non ricordare, un
archetipo del vivere contemporaneo?
Asolo, 21 marzo 2017
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