I fenicotteri viaggiano di notte

I fenicotteri viaggiano di notte

Fotografia Analogica, Politico/Sociale, Analogica, 20x20x1cm
di Emanuela Laurenti e Francesca Maceroni

I fenicotteri viaggiano di notte. Si spostano in gruppo, compiendo lunghe traversate. Per gli induisti sono il simbolo dell'anima che migra dalle tenebre alla luce. Luce è speranza, buio è paura. La speranza è ciò che tiene in vita, che spinge a partire, a cercare di salvare se stessi, i propri figli, i propri simili. È il cibo dell'istinto di sopravvivenza, è il motivo per cui migliaia di persone ogni giorno scappano dalle proprie città, dalle proprie case. Il buio è ciò che hanno visto e vissuto, ma è anche il colore del viaggio. I barconi che partono dalla Turchia per approdare a Lesbo solcano il mare notturno, confidando nella copertura che l'oscurità offre. Approdano sulle rive isolane alle prime luci dell'alba, e il circolo vizioso ricomincia. Un nuovo giorno, una nuova luce, un nuovo inizio. E poi ancora la notte.
Fenicottero, flamenco, flamingo... sono nomi dalle origini latine e greche, e tradotti vogliono dire “ali di porpora” o “ali rosso sangue”, ali come fiamme. E nelle acque rossastre delle saline di Kallonis è facile vedere questi gruppi di uccelli bellissimi e fieri. Non li si può avvicinare, una barriera naturale li protegge, isolati sull'isola. La similitudine è facile e immediata. Ma i fenicotteri sono liberi di andare quando vogliono. I migranti no, loro arrivano e restano lì, bloccati in campi troppo piccoli per contenerli tutti. Le spiagge di Lesbo si trasformano da terra promessa a stallo infinito. E il sogno europeo svanisce.
Anche loro sono circondati da barriere, ma fatte di ben altri materiali che erba e terra. A loro sono riservati muri di mattoni e limiti culturali, terrore dell'ignoto e strumentalizzazioni politiche. Loro arrivano e restano. Non sono liberi di partire, ma se vogliono possono tornare indietro. Nella Siria che non esiste più, nel Pakistan dei Talebani che li aspettano al varco, nell'Afganistan e nell'Iraq sotto le bombe del Daesh. Questo possono farlo, ma non possono ricongiungersi con i propri cari già arrivati nel nord Europa. Perché è più facile il ritorno. Molti Stati membri non li vogliono. Che se ne occupino i turchi, che li soccorrano i greci e gli italiani.
A loro resta solo l'attesa. Infinita, tremenda, mortale. Una lentissima agonia che non permette di guardare oltre, di dimenticare gli orrori da cui sono fuggiti, che non dà loro la possibilità di ricominciare. E nei sogni, di notte, i mostri del passato ripopolano la mente. Madri stuprate, fratelli torturati, case distrutte dalle bombe, bimbi mutilati. L'incubo non finisce, anzi peggiora. Le ripercussioni psicologiche sono incalcolabili e loro diventano sempre più vulnerabili, spogliati di tutto, dignità e identità comprese.
Ma vanno avanti, non si arrestano, continuano ad arrivare. E vengono fermati a metà strada tra la disperazione e il diritto all'accoglienza. Possono passare mesi, addirittura anni prima che il sistema al collasso decida delle loro sorti. Dunque aspettano inermi, spettatori della disumanità mondiale, e vivono questa “non vita”. Un'esistenza sospesa, totalmente dipendente dalla discrezionalità altrui. Non resta che adeguarsi e aspettare, perché tornare non è un'opzione.

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