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Altre opere
Dell'idea inespressa e del tutto scartabile
L'ideatore progetta, si proietta, getta avanti una parte di sé o il tutto di sé, ipotizza e si ipotizza, immagina e pianifica per poi concretizzare, arrivare a una soluzione, se non definitiva, comunque attendibile, credibile, di nuovo, convincente.
"Hai un progetto?" è, prima che quesito artistico, questione esistenziale e sociale: quanto, infatti, questo processo di ricerca di definizione di un'idea, viene a coincidere con un interrogativo sull'esistenza stessa dell'ideatore? Quanto quel processo, che per sua definizione è fondamentalmente creativo, può rivelarsi distruttivo e autodistruttivo, inevitabile causa di un cortocircuito in cui chi progetta valuta se stesso in base ad un'idea di cui non trova adeguata giustificazione? Perché servono premesse che la razionalità cerca di instaurare forzando e tentando di controllare un processo fondamentalmente emotivo, istintivo, un'espressione naturale di sé quale può essere la pittura? Quanto questo processo è inficiato o piuttosto avvalorato dalla frustrazione stessa di non poter mai giungere ad una soluzione razionalmente appagante? Che non ci possa essere di fatto una conclusione come non ci possano essere premesse altrettanto appaganti?
Perché un'intuizione può essere buona, corretta, giusta o tutto il suo opposto, ma comunque la sua bontà deve essere razionalmente quantificabile, rimandare a regole prestabilite, decifrabili, controllabili e giudicabili; non deve necessariamente aprire al proprio sé, non deve necessariamente ricondurre a un senso come non può rimandare ad altre cause, ad origini sostanziali, ma inserirsi accuratamente in processi formali, essere spiegata razionalmente e formalmente; non si disvela naturalmente e heideggerianamente parlando, ma si estrinseca in un tessuto di proporzioni vastissime e al tempo stesso limitate perché rigide, sistematiche, sintesi di un confronto che invece di essere apertura vitale verso l'altro può rivelare una sclerosi di tali connessioni e la malsana incapacità di decidersi parte attiva di questo tessuto, un tornare continuamente indietro, un rigettare se stessi nella costante squalificazione del proprio operato.
Quello che presento non è un progetto, dunque, ma piuttosto un 'antiprogetto', un percorso di più di un anno, di tentativi falliti attorno ad un'idea fallimentare, un'idea sul fallimento e la frustrazione del progetto artistico. Quale rappresentazione immediata di tale concetto ho fin da principio immaginato una bozza: una bozza scartata, un foglio appallottolato, ma un foglio che non vuole essere tralasciato, confuso con altri, che mantiene una sua identità e una sua forza. E poi lo scarabeo stercorario, animale dal fascino millenario, piccolo , antico, saggio e instancabile in cui cercare un'immedesimazione e un aiuto. E poi un colore che rimandi alla propria essenza e a tale ricerca: un blu caldo, introspettivo, mischiato di terre d'ombra. E infine volti il cui sguardo intende sforare la bidimensionalità della carta per mostrare la forza di ciò che vuole esistere senza doversi giustificare.
Ma come esprimere questo concetto? Con quali mezzi? Perché la pittura? Quali altri linguaggi sarebbero stati più adatti, efficaci, innovativi ed immediati per esprimerlo? Ma perché non la pittura? Perché rinnegare, ancora una volta, proprio il mio personale modo di esprimermi? La pittura doveva rimanere una costante e doveva trovare l'equilibrio tra simboli di diversa natura. Ho dipinto bozze di vario tipo, in maniera frenetica, visi e stercorari che ne emergono, con risultati che continuamente valutavo in modo quasi schizofrenico. La stilizzazione, la sovrapposizione di immagini, le trasparenze, non mi convincevano se non temporaneamente, superficialmente, non rendevano il dialogo tra due realtà: una fragile, coscientemente rifiutata, accartocciata, frutto di un processo atrofizzante e una irrazionale, propulsiva, vitale, volitiva, da far emergere da quella fragilità.
Vari tentativi, varie tappe, scultoree, pittoriche, grafiche e infine l'approdo - temporaneo - ad un lavoro anamorfico, che conciliasse quelle due realtà così come tridimensionalità e bidimensionalità; voragini, abissi e concrezioni cartacee con sguardi presenti, vivi, dati dalla pittura, da un linguaggio antico ma allo stesso tempo profondamente personale e insostituibile, e percepibili correttamente solo a una data distanza, in una determinata posizione: il mio singolo, parziale punto di vista, e concettualmente il momento cui l'idea di quella bozza mi era sembrata funzionare.
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