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45.414348, 11.710521
Oggi, quando non usiamo dei mezzi di trasporto che ci staccano dal suolo, ci ritroviamo a camminare su strade ricoperte di asfalto o ciottoli, facendo percorsi che da secoli non vedono più il sole. Se facciamo una passeggiata nei boschi o lungo un argine, usiamo delle scarpe, dimenticandoci il fatto che sia una cosa artificiale e prettamente umana il fatto di frapporre qualcosa tra noi e il nostro pianeta. Nemmeno dopo la morte il contatto è diretto.
Da questo distacco tra noi e la terra, divenuto naturale nel tempo, è nata l'urgenza in Andrea dal Corso di “portare all'estremo della propria estetica la consapevolezza di uno scarto”.
Immersi in una quotidianità in cui se del fango finisce sulle scarpe queste vengono definite sporche di terra, non è più possibile aspettarsi una relazione archetipica con essa.
È per questo che Andrea dal Corso ha deciso di riscoprire una connessione diretta con la terra, e per farlo l'ha elevata a opera d'arte.
La materia prima è la terra stessa. Terra che inizia a diventare opera d'arte nel momento in cui l'artista la sceglie e la incornicia con quattro tavole di legno. Viene così deciso cosa sta dentro e cosa sta fuori all'opera d'arte. Su quel pezzo di mondo viene realizzato un calco in gesso, a tenere memoria della forma della terra che veine prelevata e mischiata alla resina, prima di fare il positivo. Il risultato è una famiglia di quadri che in alcuni casi formano un trittico, in altri restano opere a sé stanti. Come titolo portano due numeri di otto cifre: le coordinate del loro distacco.
Tutti abbiamo una storia legata alla terra. Un giorno un amico dell'artista vide le opere e ne fu colpito, tanto da confidargli un aneddoto intimo e potente. Era un uomo di 56 anni, originario del Kosovo. Quando è stato chiamato per fare il servizio di leva (al quel tempo durava due anni) fece senza pensarci un'azione decisa e istintiva: "Prima di partire per il militare presi un sasso del vialetto di casa e lo misi in tasca. Ogni giorno lo toccavo e guardavo; mi rassicurava, perché era parte della mia casa. Dopo molti mesi di militare dissi tra me e me: ma cosa sto facendo? Afferrai il sasso e lo gettai via. Passarono due secondi prima che io corressi a riprenderlo; lo trovai e lo rimisi in tasca. Ecco, quel sasso è come questa terra appesa: è molto più di un simbolo, è un pezzo di Casa".
Non è un caso che Andrea dal Corso abbia scelto per la sua prima opera una porzione della terra su cui è cresciuto: basta usare le coordinate che sono il titolo dell'opera del trittico per vedere che la terra è stata incorniciata a nord dei Colli Euganei, vicino al fiume Bacchiglione, dove l'artista ha vissuto l'infanzia e l'adolescenza. Questo ci aiuta a capire l'importanza del titolo: l'autore sceglie di non assegnare un significante concettuale all'opera. In modo concreto e coerente alla sua poetica, fa in modo di mantenere un identificativo oggettivo, chirurgico: le coordinate di latitudine e longitudine. Così ogni opera di questa serie ha un nome riconoscibile come in una parentela, e allo stesso tempo unico, inequivocabile. La prima, 45.425785, 11.739720, è un trittico. Tre quadri di uguale dimensione, una trinità terrena ed elementale, un trivio verso tre metri di fango che non si possono più calpestare, perché si sono eretti e hanno preso voce.
Tra monito di chi siamo e reliquia di chi potremmo non essere più, tra opera concettuale e concreta arte elementale, l'opera di Andrea dal Corso diventa arte ctonia, dove la superficie diventa verticale per offrirsi come soglia per un'esperienza quasi sciamanica, nella quale la terra viene usata in modo concreto per guarire lo iato tra la natura animale e quella artificiale dell'essere umano.
La terra: è lì, di fronte a te che guardi, sospesa a due metri dal suolo.
Ti parla. Ti affronta. Si è fatta opera d'arte.
Chiede di essere compresa nel tuo mondo.
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