"Per cercare di penetrare il significato della sua opera, e per indagare le specifiche modalità operative e anche “concettuali” del suo processo creativo, conviene parlare in primo luogo della sua opera dipinta. Innanzitutto, va detto che la sua è una pittura rapida, immediata, gestuale, che scarica sul supporto – spesse volte cartaceo – un’energia emotiva e psichica che vive di accensioni improvvise ed accetta quale completamento del lavoro anche una certa componente di casualità: «La mia pittura», sostiene la Salvadore, «per molto tempo è stata solo acqua e pigmento. L’acqua essendo fluida non è completamente controllabile e mi permette di farmi da parte, in modo da consentire che la forma si riveli da sé, come se le mie mani fossero sensori, antenne». Inoltre, è una pittura che sembra non trovare soddisfazione nell’utilizzo di un solo mezzo, e vive al contrario di una molteplicità di interventi parziali realizzati – e anzi verrebbe da dire vitalmente esperiti – con strumenti e materiali diversi (china, acrilico, pastelli, acquerelli, pesante pittura da imbianchino, ed altro ancora). Ebbene, tutto questo risulta assai funzionale all’espressione di un dramma che le opere portano con sé quasi fisicamente: i segni si avviluppano contorcendosi, le spatolate si addensano in grumi pesanti, gli stessi pastelli ed acquerelli – che la tradizione ci ha fatto conoscere quali media “gentili” – producono macchie potenti e nervose. Così, già solo in virtù del modus operandi con il quale le opere vengono realizzate, le figure che la Salvadore proietta nei suoi lavori vivono necessariamente di una sorta di “male oscuro”; e non stupisce affatto, allora, di rintracciare in esse anche dei riferimenti ad artisti altamente perturbanti, per cui nei visi, ad esempio, si colgono fisionomie pontormiane dagli ovali imperfetti e solcati da occhi profondamente incavati, rilette però attraverso una riflessione che appare condotta sui modelli della figurazione più inquieta del secondo Novecento, da Bacon a Giacometti, da Sutherland e Kiefer, o forse – ancora meglio – condividendo in maniera istintiva le atmosfere del realismo esistenziale di un Franco Francese, di un Ferroni, di un Banchieri: non a caso, rileggendo la propria opera di quegli anni, la stessa artista racconta come il suo lavoro intendesse in primo luogo «far emergere “il vero volto delle cose”, ovvero ciò che sta sotto la maschera sociale degli individui o la loro interpretazione della realtà, determinata dalla griglia culturalmente imposta e assunta passivamente in modo acritico. In qualche modo il deforme, l’incompiuto, erano uno specchio più lucido e reale della falsa immagine di sé e del mondo che l’individuo proietta costantemente».Dunque, da questi lavori pittorici la tragicità del vivere straripa in tutta la sua urgenza anche corporea e dolorosa. " Paolo Sacchini
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celeste,
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