realismo in-forme ( guerra e morte)

realismo in-forme ( guerra e morte)

Pittura, Morte, 160x110x4cm
tabù guerra-morte
forma di partecipazione: PROGETTO
autori: AKRONOS - PETRI
titolo:realismo in-forme
presentazione : Andrea Spini , Università di Firenze
Lettere, numeri e simboli arcaici, incisi o emergenti dalla materia verde-bluastra che aggruma anche le pagine di libri impossibili, rossi bruciati che sfidano lo sguardo, e poi tele dove i colori si azzuffano in una cacofonia senza ordine apparente…
In realtà ciò che Anita e Angela ci hanno mostrato nel tempo è il lavoro del Sisifo che nonostante tutto crede ancora che il Caos nel quale siamo continuamente risospinti possa trasformarsi in un Cosmos: un ordine in cui tutte le differenze siano integrate in quella armonia che solo nel Nostos è presente (ma come speranza destinata a naufragare in disillusione) e che ci spinge continuamente al viaggio verso un passato che sappiamo essere sempre collocato nel futuro. La casa verso cui ci spingono con la loro opera non è infatti – nonostante l’apparenza – ciò che è già stato; non è un ritorno, ma un andare oltre verso qualcosa che non c’è ancora ma che potrebbe esserci.
Ad un secolo esatto dal naufragio dell’umanità nella carneficina della I Guerra Mondiale, Anita e Angela rendono esplicito ciò che finora era nascosto nelle loro opere: utilizzando i linguaggi delle avanguardie storiche ne rovesciano radicalmente il senso e il significato. O meglio, ne accettano in modo originale la lezione collocandosi dalla parte opposta alla marinettiana esaltazione della guerra.
In quell’inizio del “secolo breve”(Hobsbawn) non ebbe fine solo kakania (Musil) o, per dirla con Stefan Zweig, il “mondo di ieri”; né segnò solo l’instaurarsi dei “regimi della verità” del bolscevismo, del nazismo e del fascismo che condussero alla seconda, immane e inimmaginabile (nei suoi effetti) catastrofe mondiale; prima, sottesa agli eventi come invisibile fondamento, stava la trasformazione della società in “società di massa”.
Con un apparente paradosso, l’esaltazione dell’individuo si traduceva nel conformismo di massa, la diversità individuale nella diversità cardinale e ordinale delle serie numeriche: 1, 2, 3…primo, secondo, terzo…Le identità individuali e collettive, cioè, saranno definite dalla postazione occupata nella topografia sociale, il valore individuale dal numero delle cose possedute, il valore della vita (di ogni vita) dipenderà dall’insieme nel quale sei collocato.
Un esercizio adottato nelle strategie da utilizzare contro il nemico sarà, infatti, quello di definire quanti soldati possono essere sacrificati per la presa di una collina, quanti feriti sono sopportabili nell’economia degli eserciti, quanti effetti collaterali – così si chiameranno i civili uccisi nelle guerre che ancora infestano il mondo – mettono al riparo dall’accusa di avere compiuto “crimini contro l’umanità”.
Di questa insensata ragioneria della morte Anita e Angela mostrano, con una serie di tele straordinarie, il volto. Non ricorrendo a rappresentazioni neo-realiste, sempre a rischio di cadute nelle retoriche dell’engagement (cui non sfuggirebbe, per il tema trattato, neanche il
nouveau réalisme teorizzato da Restany), né ad una qualsiasi modalità del post-moderno e delle neo-avanguardie (trans o meno che siano) o della computer art.
No, con le loro tele siamo di fronte al fare artigiano di chi, perseguendo lucidamente (e drammaticamente) il progetto di una possibile “vita bella”, ci mette di fronte a semplici serie numeriche (come quelle che contrassegnano le cassette delle munizioni o incolonnano il dare e l’avere dell’economia della guerra) immerse nelle tonalità del sangue e della polvere, con un percorso che – a seconda dell’ordine di composizione della serie – può condurre alla luminosità di un nuovo giorno o, rovesciandone il senso, all’annullamento di ogni residua speranza.
L’estrema rilevanza dell’opera di Anita e Angela consiste – a mio avviso – proprio in questa insopprimibile ambiguità, perché la verità-speranza espressa dalla scomparsa dei numeri nei tenui azzurri e bianchi non è il punto di arrivo affidato ad un Progresso di sempre maggiore autoconsapevolezza dell’umanità inscritto nella Storia, ma il telos per chiunque voglia assumersi la responsabilità delle speranza.
Difficile dimenticare il neretto dei numeri: una volta visti continuano a ballare davanti agli occhi; ancor più difficile far scomparire le macchie che ne slabbrano l’asettica perfezione. Impediscono lo sguardo del blasé-flaneur dal quale siamo tutti affetti: un girare a vuoto guardando tutto senza vedere nulla.
Con le loro tele Anita e Angela ci obbligano a fare i conti con il senso di saturazione provocato dall’eccesso di input mediatici nel quale siamo immersi e che ci impedisce – costringendoci in uno stato di ansia permanente – di rischiare la possibilità del futuro.
Nulla, tuttavia, garantisce sull’esito. Certa è solo la bellezza dell’opera in cui l’estetica –come sempre, quando si tratta di arte che non rinnega se stessa – è funzione dell’etica dell’artista. Le tele che scorriamo non sono, tuttavia, dazibao; non indicano risposte al “che fare?” suscitato, impediscono solamente l’indifferenza. Non mi sembra poco.

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