New York Vs Atget
“Curiosamente, quasi tutte queste immagini sono vuote”
W.Benjamin Demolire gli orpelli, levigare la superficie, al fine di rendere la realtà il più oggettiva possibile, ha rappresentato la cifra del lavoro del fotografo francese Eugene Atget, un lavoro per sottrazioni che ha consentito all’artista di accumulare circa 10,000 scatti di una Parigi lunare, fortemente surreale. Vie, piazze, portoni, scale, facciate. Un’architettura silenziosa, nella quale l’uomo non lascia traccia ne ci si insinua. Nella Parigi di inizio secolo, Atget si addentra armato della sua macchina a soffietto, pesante e scomoda da utilizzare, cercando di utilizzare tempi lunghi, durante i quali, solo i fantasmi sembrano apparire in processione. Questa tecnica, lo allontana dal pittorialismo, trasformando la fotografia in uno strumento indipendente. Amato dai Surrealisti, le opere di Atget prefigurano quella provvidenziale estraniazione tra il mondo circostante e l’uomo, che sarà il risultato proprio della fotografia surrealista. Perché Atget, perché proprio ora? Attraversando i deliri architettonici e sociali delle moderne megalopoli, decine di milioni di individui si scontrano quotidianamente come in una giostra postmoderna; coniugando volti, odori, aberrazioni, sapori, dolori. Sebbene la Parigi di inizio secolo sia diventata un fantasma contemporaneo, il lavoro di Atget sopravvive alle trasformazioni temporali, dimostrando come l’assenza dell’altro sia direttamente proporzionale alla moltitudine di estranei che instancabilmente si ritrovano casualmente. Gli ultimi dieci anni, trascorsi tra New York, Shangai, Parigi, mi hanno obbligato a dirigere l’obbiettivo sulla voragine umana che condivideva il mio percorso, lasciandomi libero, in fine, di scegliere quegli scatti, in cui l’”assenza” assordante si trasformava in presenza, mostrando nelle zone deserte, l’immagine di un individuo appena fuoriuscito dal campo visivo, ma di cui conserviamo l’aurea. Tutte le dimensioni dimenticate, contengono le persone che ne hanno fatto parte. Il nostro “vedere”, conserva ciò che già conosciamo, rendendoci testimoni del vuoto che ci abbaglia in ogni immagine.
Matteo Spinola






















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