Giona, o l'appeso

Giona, o l'appeso

Viaggio al centro della natura umana.
Testo di Maria Flora Giubilei (direttrice GAM Genova)

Non pittore, non scultore, ma fotografo, l’artista Marco Maria Zanin giunge nel Levante genovese nel gennaio del 2014, e, per la prima volta, varca la porta della Galleria d’Arte Moderna.
Moderno e attrezzato Jules Verne, con l’obiettivo dei suoi strumenti, inizia a esplorarne le sale, prelevando dettagli dalle opere esposte. Fulcro della sua ricerca, il vigoroso nudo contratto dell’Uomo di Ampér [sic], come è inciso nel bronzo della coscia di sinistra. Il suo artefice, lo scultore genovese Edoardo De Albertis (1874-1950), lo aveva per certo tratto dalla famosa regola del bonhomme d’Ampère, sintetizzata, nel 1820-21, in un piccolo disegno a penna negli appunti manoscritti di André Ampère per rendere visivamente il magnetismo dei poli positivo e negativo: un omino coricato sul globo terrestre, ‘infilzato’, dalla testa ai piedi, dal parallelo dell’Equatore, con le braccia aperte, la destra verso il Polo Sud, la sinistra ancor più sollevata perché attratta dal campo magnetico del Polo Nord. Quell’ ‘uomo folgorato dal progresso’ – come fu descritto all’epoca della sua esposizione alla Biennale veneziana del 1932 e alla IV Mostra del Sindacato Interprovinciale Fascista di Genova nel 1933 – aveva perso l’impaccio dell’infantile omino di Ampère per divenire la potente espressione di un certo Novecento artistico orientato a restituire, in termini eroici, il culto della prestanza fisica in ossequio al fiducioso salutismo professato dal fascismo. La contrazione dei muscoli, che pervade il corpo fino all’estremo sforzo e conferisce tratti orgasmici al volto rovesciato all’indietro, fa del bronzo di De Albertis, uomo di regime, un’opera insolita e fuori da abusati schemi iconografici di gioventù in cimento. Scultura originale che al tempo, come scrive Nico Stringa nel catalogo della mostra bolognese dedicata a Arturo Martini nel 2013, trovava una sorprendente eco solo nello spasmodico nudo dell’Aviatore in
terracotta del trevigiano, esposto pure lui alla Biennale del ’32, tanto “creatura primordiale” nell’essenzialità assoluta e vibrante dell’anatomia, quanto “apologia dell’anelito” di dannunziana memoria.
Fin qui Edoardo De Albertis, e, da qui, prende le mosse Zanin per andare oltre: per nulla intimorito dalla aura storica del bronzo, ne coglie e restituisce tutta la potenza fisica in una magnifica immagine “sottosopra” (ma il gesto è del tutto anti-dada), e illusoriamente in rilievo, che pone al centro di una gigantesca carta cotone, reinventandone la metafora all’insegna di una voluta complessità di significati. Dafne in versione maschile, dai piedi del bonhomme radica la fronda di una quercia – decorazione lignea del salotto liberty firmato dal versatile artista genovese Alberto Issel intorno al 1902, esposto in GAM, ma appartenente alla Wolfsoniana -, a sua volta generatrice “forte” di volti di uomini, donne e bambini.
Il mite bonhomme amperiano coricato sul mondo, già trasformato in eroe imbibito di superomismo, si ritrova, quindi, improvvisamente, a essere l’appeso dell’arcano dei tarocchi, ovvero il traditore esposto al pubblico ludibrio, a testa in giù, agganciato per entrambe le gambe, secondo un’antica pena raccontata da disegni quattrocenteschi. Ribaltando valori e prospettive, la carta dell’appeso invita la natura umana alla flessibilità, alla capacità d’adattamento. Zanin, tuttavia, non si ferma neanche a questo livello, peraltro fonte di sue riflessioni. Nel pensiero del fotografo, che accoglie l’idea di Fortunato D’Amico di meditare su una Genova bifronte come la testa di Giano – posta sullo stemma civico – e ricca di storiche contraddizioni tra Levante e Ponente, tra il suo centro e le sue “ali”, il bonhomme/appeso è in realtà un Giano/Giona. Antico profeta, rinchiuso nei visceri di una balena/terra, Giona è simbolo “bifronte” di morte irreversibile e di rinascita dopo i tre giorni vissuti nell’oscurità di quel ventre-sepolcro, prefigurazione del Cristo risorto. Trasformato da Zanin in misterioso e antico arbiter-spartiacque di valori positivi e negativi, Giona/Zanin, quasi immolandosi, s’immerge dunque nella natura umana e ne rileva luci ed ombre, forze positive e negative. Tessere “parlanti” di uno stupefacente e prezioso mosaico che ricompone, coll’ampio respiro antico della storia e la levità dell’affresco, l’epopea umana tra vita e morte, in pace e in guerra.
Più di 200 i soggetti intrappolati nelle pellicole e profusi ai lati di quel corpo, il quale assume, a sorpresa, ma non per caso, la forza di una smisurata elsa di spada da leggenda medievale. Grandiosa visione esistenziale in cui Zanin dispiega il preciso ordine di un racconto umano biologicamente generato dall’elemento marino: è proprio il mare di Nervi col suo orizzonte, come egli rivela, quello su cui “galleggia” il rilievo del bronzeo bonhomme e i frammenti di paesaggi, architetture, gesti, segni, oggetti e una galleria di volti. Sono essenze ectoplasmiche distillate dalle profondità ispiratrici del ventre museale e trasferite sul grande supporto con le tecniche intriganti di un moderno fotografo-alchimista. Ispirazione e mestiere, dunque. Ma questa è un’altra storia che solo Giona/Zanin potrà raccontare, in futuro, se lo vorrà, svelandone ricette e segreti da camera oscura.

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