Pasqua

a cura di Giorgio Russo

Un piano sequenza, una ripresa fissa. Una fotografia che dura trenta minuti. Pasqua, il titolo. L’esclusività del gesto, le sinestesie raccolte, i temi, l’idea, la forma, il contenuto, la tecnica, la spontaneità, l’originalità e costante paura di essere banali crollano: cosa rimane allora?
Una fotografia. Una fotografia che sembra esca dallo schermo, per guardarsi, ascoltarsi, schernirsi. Rumori di una casa stanca, la banda del paese in lontananza che cercano di smorzare l’attesa, l’aspettativa che succeda qualcosa, qualunque cosa, pur di distruggere la fotografia. Il tempo scorre, le cose divengono ma la fotografia resta, una fotografia che dura, che raschia le pareti dell’orologio. Scandisce la Pasqua.
Qualcosa che si porta dietro dei simboli, quando essi hanno il significato di certezze, viene preso in ostaggio dalla prova artistica e dalla tecnologia, perdendo tutto il proprio aspetto aggregativo e sacrale. La Pasqua non viene dunque rappresentata dalla donna che guarda attraverso tutto ciò che si trova nella propria linea di fuoco; in quel momento, solo in quel momento, la Pasqua è una fotografia che dura trenta minuti. Trenta minuti carichi di sfumature e vuoti insieme, vittime, gli spettatori, di un tempo che non passerà facilmente, che imprime l’eternità che solo una delle maggiori afflizioni dell’uomo può costruire: la noia.
E’ proprio quando cerchi di fotografare la noia, prendendola come soggetto, che ogni spiegazione decade, a favore del più puro atto creativo, che è la poetica, intesa come metodo. Sono convinto che qualunque atteggiamento di ostilità contro le descrizioni di un’opera non sia soltanto inutile ma anche pericoloso, come lo è contrastare un simbolo. Eccola, allora, la contraddizione. La contraddizione di un titolo che instilla delle immagini che fanno parte della memoria collettiva, come collegamento per ricordare esperienze personali, ma che qui, in questa fotografia, non viene celebrato ma distorto, annichilito, dimenticato.
Tutte le immagini legate al rito, all’aspettativa, all’ansia, si configurano in un altro sistema di simboli, in un altro metodo vale a dire. Dire le cose, e quindi rappresentarle, in maniera diversa non vuol dire distruggere ciò che si è precedentemente teorizzato ma provare a incanalarle verso qualcosa di nuovo, di finito, dove si trovano precisi confini, confini che non costituiscono la cornice, ma le cose stesse.
E’ quando un’opera rappresenta se stessa, senza filtri, senza l’opprimente bisogno di cercare un significato che vada oltre la forma, che si evitano inutili spargimenti di sangue conseguenti al perenne dubbio di non aver compreso, di non riuscire a saperne parlare.
L’attesa si configura nella nostra fervida volontà di riuscire a trovare qualcosa che sia degno della nostra attenzione, qualcosa che valga la pena ricordare scacciando i falsi entusiasmi e non cercando di coprire i buchi della vita con le parole.
Una fotografia fisica, che è un simbolo e che qui, soltanto qui, diventa una sfumatura.



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