Il Scudo della Trinità

Il Scudo della Trinità

Mariana Paparà scosta la cenere che si frappone tra la materia e lo spirito. Ciò che resta della fiamma è il sigillo di un moto di conoscenza, la memoria cicatrizzata di un dolore. Atto di nascita del linguaggio, il rogo ne decreta la fisionomia, marchiandone a fuoco grammatica e destinazione.
Lo scudo è forza. La struttura è resistenza. La tela è protezione: figura archetipica della difesa, conserva sulla propria superficie le abrasioni e le ustioni della battaglia. Simboleggia non soltanto sopravvivenza, ma elevazione conquistata attraverso prove e difficoltà: strumento per riti di passaggio tra rivelazioni e prese di coscienza. Al di là di essa, un incubo cova l’assenza della parola, l’esistenza arretra nel terrore di uno strappo e la storia rimane orfana di ogni sacrificio che, un tempo, la giustificava.
La rappresentazione è questo giacimento riconquistato. Al suo interno, la scrittura di una vita, perduta ogni coordinata e ridotta a segno atrofizzato, resta intrappolata in sostrati dorati, come se si trattasse di uno straordinario rinvenimento negli scavi dell’essere.
L’intuizione riproduce uno scatto dei nervi, la tensione dei muscoli, la faticosa elucubrazione sul significato di una parola, sulla sintassi di un pensiero. Emergono sciabolate lancinanti, ferite di striscio, antiche piaghe rimarginate. Rimangono, in profondità, lividi ematomi, violacee impressioni di un cupo spasmo, fitte incarnite nel corpo della creazione.
Ogni individualità viene oltrepassata: dell’uomo rimane la struttura. Croce, impalcature, linee di forza si appoggiano a un telo esteriore, estremo riparo nei confronti di un’agghiacciante verità. La catastrofe è a un passo. Basterebbe scostare l’ultima pergamena e rimuovere alcuni chiodi arrugginiti per svelarne il tremendo aspetto scarnificato. Ci restano, invece, la consolazione di ogni dissimulazione, il senso recuperato di ogni valore aggiunto, il sofferto e rifondato dominio della realtà.

Iva Fassio

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