Deposizione

Deposizione

Pittura, Memoria, Sacro / Mitologico, Acrilico, 135x110x3cm
Recensione critica di Angelo Ferdinando Costantini.

Deposizione
Gioca con gli elementi della rappresentazione cristica partendo dal “Cristo morto trasportato al sepolcro” del Caracciolo su cui innesta nuove componenti che sconvolgono l’intero assetto compositivo ed interpretativo dell’opera di partenza. Questa maniera del collocare gli elementi all’interno della tela rimanda alla ricerca del proprio posto nel mondo e contemporaneamente ad una corretta modalità dell’essere situati.
La ripetizione dell’immagine del proprio volto è un elemento ricorrente in tutta l’Opera dell’artista messinese. La ricerca identitaria, come ricerca di quell’uno disperso nel marasma del possibile, chiama in causa l’Altro, come artefice e testimone di una autonoma possibilità di ricomposizione, declinato in svariate forme, come possibilità, come Morte ma soprattutto come finzione.
Busà è dappertutto proprio perché non è da nessuna parte!. Egli è fuori dalla rappresentazione, fuori dalla finzione scenica che va narrando e nel quale è immerso.
Il volto è traccia di sé in quanto manifestazione, epifania, possibilità di rinvio a quanto, di autentico, ciò che è mostrato non dice. Attraverso l’esposizione dell’immagine del suo volto l’artista compie un’opera di dissimulazione, in quanto l’es-porsi in questo far mostra di sé come finzione mira ad un nascondimento, al riserbo di un sostrato più veritiero ed intimo del sé che è la più autentica delle possibilità d’esistenza. Tale intento è evidente sia nel ricorso alla smorfia sia alla connotazione blasfema del quadro. Una tale esposizione infatti, nel suo essere provocatoria e critica assume, della dimensione della crisi, quel distacco, ovvero quell’abbandono delle convenzioni dei contenuti della cristianità che sono qui come sabotati e travisati e insieme concorre alla costruzione di nuovi significanti.
Spudoratezza come pudore, come rottura di consolidamenti e difesa dell’intimo.
Come un bambino assorto nel suo slancio ludico Busà rompe e ricompone l’immagine decapitando e aggiungendo teste, sommando e sottraendo corpi e creando a piacimento prospettive sbagliate. Soggiacente a questo intento ludico v’è l’autentica volontà di apporre un velo positivo e risignificante a quanto di funereo e di cadaverico aleggia attorno all’intera rappresentazione.
È la manifestazione giubilatoria dell’infans di cui parla Lacan che, anziché riflettersi nell’integrità dell’immagine restituita dallo specchio (come Altro in grado di ricomporlo) si decompone cospargendo brandelli di sé su tutta la rappresentazione ed affidando alla finzione il ruolo di artefice della sua possibile identificazione.
È la genuina volontà di trasformare quell’abissale mistero, quel centro gravitazionale su cui ruota il senso di colpa dell’ intera rappresentazione in una fonte di stupore e di meraviglia.
La resa del corpo si ottiene a partire dal processo pittorico dell’incarnato in cui si sovrappongono strati di colore, ed in cui il bianco che è nell’opera non simboleggia più la purezza, il candore, l’anima, ma diventa sinonimo di cadaverizzazione e di morte. E’ quindi più corretto parlare di “scarnificato” per descrivere il metodo di Busà che mira ad evidenziare lo svuotamento di quanto di vitale è insito nell’uomo, descrivendo un corpo che ha perso la sua componente emotiva, estetica ed esistenziale e sottolineando, per convesso, la piattezza e la finzione del vivere reale anche attraverso l’utilizzo di altrettanto piatte relazioni tonali e materiche. Ciò che si perde infatti attraverso l’utilizzo della pittura acrilica è la capacità diafana del colorito che lascia scorgere una profondità. Questa interdetta capacità di penetrazione fa si che il colorito sia restituito soltanto da un punto di vista formale e superficiale. Esso viene a consistere in un manto, in un tappo che interdice la possibilità d’un oltrepassamento. Il corpo non veicola più la sua natura spirituale bensì cosale e cadaverica. Il ricorso al sensazionale attraverso l’inserimento sullo sfondo prospettico delle figure mostruose di Bosch, provocatoriamente, mira alla riappropriazione del Senso che si perde nel macroprocesso contemporaneo.
Senso come significato esistenziale ma anche come ciò che fa capo al sensibile, alla percezione del corpo, all’emotività e al sentimento.
L’innesto dei visi sui corpi, dunque, mette in relazione le due diverse qualità del velare e del fingere: una di natura positiva che fa capo al volto, all’urgenza di custodire quanto di più intimo è veritiero è celato nell’animo, l’altra di natura negativa che fa capo al corpo e alla sua interdetta capacità di comunicazione con l’anima e lo spirito. Le due finzioni comunicano tra loro nel nesso dell’alterità.
L’intento di Busà è quello di far “morire la morte”, di provocare, attraverso il ricorso alla finzione una faglia, uno spiraglio di verità nel seno della pura illusione.
Lungo il sentiero del vacuo che fa del corpo involucro e della rappresentazione finzione, incontriamo, posto al centro della tela, il vuoto, il nulla.
Le mani, ancor più scarnificate e disumane balzano fuori da quel vuoto abissale nel famelico tentativo di afferrare l’intera rappresentazione per fagocitarla . Sono mani come catene.
Le mani cosi risignificate pare che attentino al sottile equilibrio della narrazione della tela nell’intento di riaccartorciarsi attorno ad essa. Equilibri precari stabiliscono il labile confine tra l’illusione ed il possibile, tra la composizione e la distruzione dell’immagine. La tensione ludica, infatti imprime una forza di senso opposto alla volontà nichilistica del quadro di collassare su se stesso. Nella tragedia narrata la morte, come Altro assoluto, non ha una funzione catartica, non spoglia l’individuo delle sue menzogne e finzioni riportandolo alla verità, bensì assume la valenza dell’assoluta finzione nella quale l’uomo è imprigionato per sua volontà di vivere.
L’intento artistico di Antonino risiede nella possibilità di rottura di tale finzione. La vicenda narrata, infatti, più che evocare un aldilà incoraggiante racconta di un minaccioso, ma nello stesso tempo attraente e coinvortico aldiquà della quotidianità media. Ciò che l’artista evidenzia è, più che una possibilità catartica, una impossibilità estatica (estasi: d.g. “mettere fuori”, “uscire di sé”), l’impossibilità d’esperire la gioia, la propria smisuratezza, l’ essere oltre di sé, oltre le limitazioni e le oggettivazioni del reale. Per “essere fuori” s’intende la possibilità di un oltre che non sia la deriva di noi stessi ai margini dell’Esistenza, ma il totale affrancamento dalla totalità delle determinazioni del reale. All’attrito esercitato dalle convenzioni e all’inerzia delle finzioni che ci interdicono tale possibilità d’approdare all’estasi Busà contrappone la sua “es-popsizione”, l’ ”essere fuori “da ciò da cui a nostra volta siamo stati spodestati e che ci appartiene.
La profondità estetica dunque s’evince per negazione rispetto a ciò che la rappresentazione mostra (la finzione, la morte, il cadavere) ovvero nella sua possibilità di rottura attraverso il ricorso di un’altra finzione di natura positiva che nell’intento di rompere le convenzioni custodisce nel proprio intimo il buon seme capace di germogliare e dar frutto nell’infinito campo dell’Essere, attuare cioè la riconquista di un posto nel mondo attraverso l’es-posizione, quella maniera d’essere situati che ci permette d’esperire di un “fuori di noi”, un aldilà, un altrove appunto, positivo ed essenziale. Un altrove più adatto a noi ed in cui consiste il rischio più grande: il rischio d’esistere.
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