La morte di Adone

La morte di Adone

La morte di Adone

Alle ore 8:46 del mattino dell’11 settembre 2001, il mondo si fermò per alcuni interminabili istanti, moltiplicati all’infinito dalle televisioni di tutto il mondo: due aerei di linea si schiantarono, a breve distanza di tempo l’uno dall’altro, contro le Twin Towers del World Trade Center di New York. Le vittime dell’attentato alle torri gemelle furono 2.749. La tragedia che ha colpito la “Grande Mela” (Manhattan e quindi, per estensione, New York), pugnalandola a morte, ha provocato la morte e il ferimento di migliaia di civili inermi e una crisi economica mondiale di enorme portata, che tuttora perdura. Essa si accomuna al mito di Adone, un giovane di straordinaria bellezza, amato da Venere. Secondo la leggenda, ferita per sbaglio da una delle frecce di Amore, Venere si innamorò perdutamente di Adone, passando le giornate con lui a caccia e trascurando i suoi doveri divini. La dea, che conosceva il destino del ragazzo, più volte aveva consigliato Adone affinché rifuggisse le bestie aggressive. Un giorno, mentre Adone si trovava da solo a caccia, i suoi cani fiutarono le tracce di un cinghiale: il bel cacciatore, incurante degli ammonimenti di Venere, dopo averlo inseguito, lo colpì senza ucciderlo. Il cinghiale inferocito lo aggredì e lo ferì a morte. Dalle lacrime di Venere, accorsa disperata, nacquero delle rose, mentre dal sangue di Adone nacquero gli anemoni, fiori di brevissima durata, i cui petali vengono dispersi dal vento poco dopo essere fioriti (il nome stesso deriva dal greco anemos che significa “vento”). Il giovane e bello Adone rappresenta nell’immaginario mitico l’emblema della fugacità della vita umana e della precarietà dei beni terreni, temi che si pongono al centro della riflessione di Francesco Petrarca, la cui opera è una considerazione malinconica del trascorrere del tempo e della incertezza della condizione umana: “Tutta la vita mi sembra nient’altro che un sogno leggero e un fugacissimo fantasma” (Petrarca, Epistolae de rebus familiaribus, 2, 9). Nel Canzoniere, l’opera poetica per cui è universalmente noto il Petrarca, è centrale l’amore per Laura, motore propulsore intorno a cui ruota la vita spirituale del poeta. Laura non è solo la donna desiderata, ma il simbolo delle cose terrene e della loro fragilità, destinato a infrangersi di fronte alla prospettiva dell’eterno:
“Signor’, mirate come ’l tempo vola,
et si come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita (alla morte):
ché l’alma (l’anima) ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso (insidioso) calle (cammino: la morte)”.
Di qui la percezione di una mancanza di senso e un sentimento di futilità, che è alla radice del “viver dolce amaro” testimoniato dal Canzoniere.
Ora, prescindendo da considerazioni sulla gravità di eventi come la tragedia delle Twin Towers, vien fatto di chiedersi se il vero dramma dell’uomo è insito, connaturato nella brevità della sua esistenza sulla Terra. In realtà, la morte e la caducità delle cose terrene sono fenomeni ineluttabili e incontrovertibili, connaturati allo stesso concetto di esistenza. La risposta al precedente quesito è rintracciabile nell’opera di Luigi Pirandello, che tratta il tema dell’esclusione e dello sradicamento dell’uomo moderno. La sua riflessione si appunta sul disagio esistenziale causato dalla perdita di valori di riferimento e sull’inevitabile spersonalizzazione indotta dalla diffusione della civiltà delle macchine. Secondo Pirandello l’essenza della vita è il flusso continuo, il perenne divenire; pertanto, “fissare” il flusso equivale a non vivere. L’eroe pirandelliano è un uomo sconfitto, schiacciato dalla tragica impossibilità di sfuggire alle convenzioni della società. Lo scrittore siciliano rappresenta all’interno delle sue opere l’opposizione maschera/volto. L’uomo non è “nessuno”, la sua individualità non esiste, eppure egli si ritrova continuamente e consapevolmente definito in forme nelle quali gli è impossibile riconoscersi, maschere che gli sono indispensabili per garantirsi una qualsiasi identità sociale, ma che si rivelano come “trappole” dalle quali non può fuggire. L’uomo, dunque, del tutto impossibilitato a conciliare vita e forma, può solo guardarsi vivere, esaminarsi dall’esterno, come sdoppiato, avvertendo l’assurdità dei gesti abituali che gli impone la sua maschera: la vita nella società moderna non è altro che “un’enorme pupazzata”.

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Commenti 1

Rudolf Lichtenegger
10 anni fa
Great work, great meaning, great text!!!!

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