Le città minime #5
Nella rigida struttura binaria della nostra percezione Matteo Mezzadri insinua un elemento ibrido, un’impertinenza che scardina l’identità perfettamente definita aprendo un varco per il rimescolamento. “Città minime” è un progetto fotografico multidisciplinare comprendendo una mise-en-scène scultoria e installativa realizzata dall’artista nel suo studio con una variazione di punti di vista sia dell’obiettivo fotografico che delle fonti di illuminazione per stabilire differenti temperature e continue incidenze negli stati d’animo del piano di lavoro. I mattoni sovrapposti nelle sculture, riproduzioni di brani fittizi di città impossibili, le “Città minime”, sono un tentativo gestaltico nel quale “il tutto è più della somma delle singole parti”. Nella visione dell’opera l’impianto architettonico è oggetto connotante o globalizzante, le strutture sono forme distinte nell’innaturalezza della deformazione conoscitiva e timbrica, ma nell’immobilità della postura e nella distrazione provocata da un inciampo, non così immediato che è quello della finzione, passano dal somigliante al dissomigliante, si fanno metafora di possibili imperfezioni, di meccanismi in cui l’uomo è costretto e ingabbiato, e al contempo rivelano uno spazio di libertà assoluta del pensiero. Le immagini vengono quindi usate da Mezzadri per rimandare ad un’affinità, ma anche per svolgere un’operazione che è quella di rappresentare altro da sé stesse, per immergerci in una claustrofobia disarmante ma mai totalizzante, in uno stato imprevisto in cui i sensi vengono scompaginati e nudità, bellezza, crudeltà, solitudine, conformazione, stereotipi si fanno elementi talvolta veri, talvolta verosimili.
Mezzadri, tra fotografie e video, racconta di contaminazioni ossessive e intermittenti sulla soglia di differenti pratiche artistiche e linguistiche indagando il tema dell’abitato e dell’abitare. Nel porsi di fronte alle sue fotografie ci s’immerge nelle viscere dei luoghi e dei non-luoghi, delle geografie urbane, delle storie antropologiche dell’anima e del corpo. Se i muri degli edifici proiettano metaforicamente nello scheletro dell’uomo, il fil rouge dell’intero ciclo artistico è interpretato attraverso riservate assenze o oniriche presenze, proiezioni autoriflessive o architetture da scenari post-industriali, luoghi agorafobici e paesaggi oscuri, ombre e rifugi, palazzi luminescenti e solitari arbusti incantevoli e sfuggenti come cattedrali magiche o stanze fatiscenti. Si tratta di una sorta di archivio che procede per moltiplicazioni, si srotola tra e desideri o incubi proiettati in un paesaggio irreale, una geopolitica sociale che si evolve per accumuli d’impressioni e fantasie. Nel suo lavoro l’intersecazione avviene tra abbandono, pericolo, suggestione, bellezza, decadenza e uno splendore restituito dalla superficie retinica di un’immagine contaminata e vertiginosa.
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