Diana e l'Ultima Foresta
Diana, figlia di Giove e Latona, sorella di Apollo, è una dea italica, latina e romana, signora delle selve, protettrice degli animali selvatici, custode delle fonti e dei torrenti, protettrice delle donne, cui assicurava parti non dolorosi. Secondo la leggenda, Diana, giovane vergine abile nella caccia, irascibile quanto vendicativa, era amante della solitudine; infatti, era solita aggirarsi in luoghi isolati. La radice del suo nome si trova nel termine latino dius (“della luce” da dies, “[luce del] giorno”). La luce a cui si riferisce il nome sarebbe quella che filtra dalle fronde degli alberi nelle radure boschive. Alle spalle della dea è rappresentata “L’ultima foresta” di Max Ernst, uno dei maestri nell’avanguardia novecentesca, instancabile sperimentatore, “uomo delle possibilità infinite”, come lo definì Breton. La foresta, luogo fuori dai limiti della civiltà, è stata centrale per millenni nell’immaginario dell’Occidente ( e non solo) e il retaggio di quel passato si ritrova ancor oggi, ad esempio, nelle fiabe. Nelle foreste, territori del continuo divenire, nelle quali si ripropone costantemente il motivo della metamorfosi, l’eroe si smarrisce come in un labirinto, fa incontri straordinari e da esse esce completamente trasformato. La foresta ha esercitato, fin dall’infanzia, un fascino straordinario su Ernst, con le sue risonanze con la selva romantica. C’è un episodio che Ernst ha raccontato più volte nelle sue note autobiografiche. Il padre Philipp Ernst, autoritario e bigotto, insegnava in una scuola per sordi , ma si dilettava di pittura. Il piccolo Max rimase colpito nel vedere il padre mentre lavorava a un piccolo acquarello intitolato “L’eremita di Heisterbach” o “Solitudine”, che rappresentava un eremita seduto in un bosco di faggi, intento a leggere un libro. Dal quadro proveniva una sensazione di quiete e insieme di minaccia.
In un testo del 1934 (“I misteri della foresta”), l’artista renano contrapponeva la foresta europea, che correva il rischio di essere addomesticata, a quelle dell’Oceania, ancora “selvagge e impenetrabili, nere e rossicce, stravaganti, secolari, formicaio, diametrali, negligenti, feroci e gentili, senza ieri né domani […]. Nude, si fregiano solamente della loro maestà e del loro mistero”.
Ma perché la foresta è “l’ultima”? Forse, perché il disboscamento selvaggio, attuato dall’uomo, ne minaccia seriamente la sopravvivenza.
Per quanto tempo ancora potremo ascoltare la musica della Natura e rivolgerci, come D’Annunzio ne “La pioggia nel pineto”, a Ermione e invitarla a sentire che:
“Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi e irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti”?
Quando queste immagini saranno soltanto dei ricordi scolpiti nella nostra memoria?
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