Il mio approccio all’arte, pur deragliando spesso e volentieri verso soluzioni massimaliste d’ispirazione post dadaista, parte essenzialmente dalla parola. Contrariamente a quanto andrebbe fatto la ricerca artistica che porto avanti non scaturisce da un’indagine sulla materia o da una particolare sapienza riguardo all’alchimia dei colori, nemmeno dipende da tutte quelle obsolescenze tramandate da generazioni legate alla manualità, settore artigianato. L’opera è già in testa a partire dall’alterazione di un luogo comune o di un abusato modo di dire, sabotaggio di parole crociate servite destrutturate per un aperitivo a base di vocaboli impazziti, tanto che talvolta pare perfino inelegante realizzarla: basta il pensiero, “e non dovevi, davvero”. L’opera è spesso una rocambolesca avventura dialettica che finisce per forzare i limiti della logica senza tuttavia travalicarne il segno formale; tanto spreco di oggettività finito così in monocromia, sobrio servizio in tavola, o in questo caso per una colazione a letto, azzardo di un’interpretazione alternativa: quella giusta è sempre l’altra, quella prescelta è l’opzione subliminale. All’assemblaggio artistico basterebbe un titolo e mentre l’aspetto tangibile concede un’ironica conferma all’equivoco, l’acrilico cola giù come lava sintetica ed uniformante. Artifici ad incastro, con uso dizionario, messi lì per parodiare frasi di circostanza, con lo scopo preciso di poetare a lato, confessando attraverso la provocazione tutta l’ingenuità dei segreti. Così le parole si ribellano nella virtù della doppiezza, così il senso unico del significato si tramuta in dissos logos, simulazione liberatoria nella serra di sinonimi-anonimi in cui ci troviamo a vivere.
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celeste,
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D.
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