Interno giorno

Interno giorno

Fotografia Analogica, Bellezza, Figura umana, Analogica, 100x70cm
Il mio fare muri coincide anche con la concezione dell’arte di negare per mostrare. Nel nascondimento
c’è il far nascere il desiderio di guardare. Svelare ha la particolarità di far immaginare tutto
quello che si vorrebbe ci fosse. Infatti poi, i veli non mostrano altro che se stessi. La sensazione che mi
rimane è quella iniziale di un profumo appena provato per il fatto di non essersi ancora manifestato. Allo
stesso modo la fotografia deve far sentire il profumo di ciò che metto in scena. Se fotografo un tessuto
devo poter dare la sensazione della trama. I suoni nell’aria che possiamo immaginare sono dentro
l’immagine; ma si sono verificati prima o dopo? Non è fondamentale saperlo. L’importante è il racconto
dentro l’immagine. Si può mettere in scena un intero canovaccio usando la potenza della luce come fece
Caravaggio. Egli ha cominciato a dare luce all’incarnato, alla morte; al dramma nella sua naturalezza. Le
immagini dovrebbero essere vicine alle idee che le hanno generate. “la riflessione sul linguaggio portata
in primo piano, non fine a se stessa, ma tesa a rivelare le strutture psicologiche che stanno alla base della
visione” (Giorgio Verzotti).
Ho sempre scritto usando un noi o un si passivante, pensando di impersonare un normotipo, ma mi rendo
conto che mi sbagliavo di grosso. Sono diverso e unico (non speciale). Un essere umano come tanti altri,
ma con pregi e difetti che caratterizzano il mio stare in questo mondo. Mi accorgo di quanto sia difficile
esprimere i sentimenti. La scrittura mi aiuta, un rifugio nelle parole. Esse non mi spaventano e si rincorrono
naturalmente. Scrivo chilometri di lettere per contornare un’emozione, altrimenti difficile da esprimere
a parole. Ho sempre trovato difficoltà ad esprimere sentimenti in modo diretto e ancor di più a voce.
M’accorgo di avere un muro al di là del quale non riesco a guardare, se non solo dopo aver eliminato una
parte di me. Questa parte non vorrebbe mai sbagliare e mantenere un’immagine riccamente elegante.
Provo paura e concepisco un discorso colorito che sembra accontentare entrambe le mie persone. Passata
l’emozione e anche l’incontro, rielaboro i discorsi e immagino altre risposte, altri comportamenti. I finali
sono più dolci, le parole più semplici: era questo che volevo. Eppure non si realizza. Comprendo vivere
una realtà distorta, sfocata e nascosta dietro un muro. La mia incapacità di guardare quella parte leggera,
eterea e colorata della vita. Vedo scorrere lettere in nero sull’orizzonte bianco delle mie paure. Una linea
orizzontale divide il mio sentire. Una frontiera al di la della quale forse c’è la mia libertà*. Libertà dalla
bellezza dei discorsi, dalla poesia. Mattoni letterali del mio sentire. Alcune fotografie sono, infatti scattate
in luoghi dell’arte. Proprio dove le parole possono creare arte. Proprio dove vorrei guardarmi: al di la del
muro1. Non vedo l’orizzonte, allora me ne distanzio cerco nella prospettiva2 il flusso dei dati registrabili,
una codifica, un modello di scansione temporale alla Ansel Adams, che mi possa dare l’indicazione di una
nuova area dove entrare in contatto con la mia sensibilità. Ma il punto di fuga, risulta essere troppo
distante ed io non riesco a mettere a fuoco quella luce “alla fine della strada”. Non vedo l’orizzonte:
pieno, intero ed esteso. Mi creo un mondo dove posso creare orizzonti e posso guardare dall’alto. Mi
rinchiudo di nuovo, in altri piccoli mondi3: fintamente reali ma vuoti; sciapi come direbbe mio padre. Egli
mi vedeva bambino, alle prese con realtà che non so combattere. “Povero alle armi costruisco fortezze
urbane. La città ascolta. Dona il corpo al dolore, mi libero; liberati con me lasciati combattere muovendoti
goffamente verso l’illuminazione sopra le città: province di noi”. In questi versi, cerco un evento, un
mezzo o semplicemente delle superfici del tempo. Qualcosa che evidenzi il passaggio, una memoria. Un
vuoto mi pervade, cerco lo sguardo del passaggio al di fuori: nelle finestre4. Poi annuso la scia: una
memoria del mio vivere all’interno. Quindi costruisco quei mondi, che fuori immaginavo. Affascinato, ne
ricercavo la luce dentro di essi. Ma scopro solo dei vuoti: istanti di percezione cosmica dentro di me. Le
immagini di nuovo mentono ed io a loro. Infatti, appena interrogate non esprimono nulla se non una
mancanza: la mia presenza. Una sintesi razionale può essere restituita solo dall’interno. Ho bisogno di
stare in basso; guardare al pari di un “granello di sabbia”. Come se attimi o passaggi di tempo possano
coesistere in una visione del tempo che solo agli oggetti è consentito vivere. Nomino infatti ciò che vedo
e attraverso un’idea di tempo. Mi ricordo e, di nuovo, ancora rinomino. Ma a loro, agli oggetti voglio
dire, non importa. Essi stanno nell’ombra o nella luce in un intermedio luogo di confine: frontiera. Da qui
dove la luce è luce scura v’è un momento di quiete dove le cose sono molto più simili alla realtà appunto
perché non definite. Un mondo senza ombra sarebbe illeggibile. Uno spazio comune tra il bianco e il
nero. John Hilliard, è uno degli auto che più ha indagato opposti contesti e contrasti distanti in un equilibrio
formale ed estetico tanto da sfiorare l’optical. Ma dietro e dentro le sue composizioni trovo quel
limite; una sorta di fetta di tempo comune a luoghi diversi dove il tempo è lo stesso perché forse siamo ad
esserne convinti. Un grande punto dentro e fuori o spazio5-6 che abbraccia la terra, il cielo, l’autunno, ogni
luogo. Hilliard viaggia con la narrazione filosofica in un epicentro visivo. Mette insieme il buio cosmico
dove l’armonia visiva respira e dove l’unico punto di percezione è il tempo. Ma nulla accade in tempo
reale e la realtà non ha un luogo. Essa si muove su di un piano diverso. Ma come noi la potremmo definire.
Nelle sue immagini amo la capacità di raccontare. Usa soggetti di fotografie che non sono fotografati
ma usati per raccontare un tempo attraverso uno spazio. In Ghirri questo spazio diventa una distanza
stellare. Un vuoto così denso che provoca l’immediata sensazione di doverlo riempire. Se guardiamo una
sua fotografia, notiamo una mancanza7 data da un elemento che di volta in volta si trasforma da architettonico
a privato, da scenico a sentimentale, da pubblico a ironico. Nella foto qui presente troviamo un
muro che fa da limite a mondi diversi ma inseriti nella stessa stanza o nello stesso quadro. Guardare
dentro il mio sentire. Una necessità che spesso mi spinge ad avere una visone troppo seriale degli istanti.
Una temporalità programmatica dietro ogni cosa. Un’attesa, come questo lampeggiare pallido nell’attesa
del dito sulla tastiera. Perdo così la brillanza semplice e geniale attorno forme leggere ed emozionali.
Fotografo dunque me stesso. Chiamo la mia anima a mostrare la parte più sentimentale e dolce di se (lato
che, per eccesso di zelo o discrezione tendo a ricoprire e mantenere nell’ombra). Ma le emozioni non
hanno trame fitte, possono essere indici: spazi nella rete delle relazioni, estremi di un sorriso, “parole sulla
fronte e attorno agli angoli della bocca”. Un agire nudo, dove l’uomo diventa soggetto e si sottopone allo
sguardo sapendo d’esserne vittima. Una riflessione su quello che spesso l’uomo non dice di sé. Queste
fotografie presentano una realistica rappresentazione dell’uomo ‘privato’ di una vita leggera e sottile alla
quale anela: vita racchiusa nel quotidiane. Curioso, indago la superficie di questa corteccia, dando immagini
talvolta voyeuristiche di me stesso. L’occhio del protagonista diventa la soglia che permette al pesante
e inerte scafandro del suo corpo di liberare la farfalla del pensiero. Come nel protagonista del film lo
scafandro e la farfalla, sento la mia voce interiore imprigionata da una fitta rete di pensieri. Provo orrore
per la condizione nella quale mi trovo. Ma sento una indomabile spinta all’espressione. Penso, desidero,
soffro e grido dentro di me. È un grido in cerca di una bocca che possa tradurlo in suoni e parole. Per ora
rimane muto, afono, tradotto in battiti: lettere. Le lettere in parole divengono filtri alla visione di quella
luce dietro le tende. La luce è stata sempre considerata la via d’uscita. Ombra e luce sono intimamente
connesse. Di fronte a due poli esploro la via di mezzo e cerco quel grigio medio con la sincerità che mi
resta. Almeno questo era quello che pensavo prima di quei due minuti di fronte alla bacheca dei volantini
della biblioteca. Un colloquio tramutato in essere vivente (appendice 2). Scopro un mondo pieno d’ombre fatte
di luci. Comprendo d’esser accecato dalla luce o ciò che credevo essa fosse. Mi impedisce di guardare.
Sono un attore nel teatro: recito ma non vedo cosa lo spettacolo produce e, se ancora, esista qualcuno
nella stessa Stanza. Vivo in un Kaiserpanorama dove tutti mi osservano, ma non vedo nessuno. Non vedo
tutto ciò che accade attorno e tendo a perdermi; dentro le percezioni di un occhio dentro l’immagine;
ornato di rappresentazioni senza alcuna ombra, dove lo spazio dei grigi non esiste. L’indicibile frastuono
luminoso di cui mi sento vittima e spettatore, costituisce la non immagine. Infatti, se il grigio divide
l’immagine, io non ne ho la percezione. Nel mio non luogo, non si realizzano “step”, o sono riempiti con
altri “rumori”, generati da ansia o paura. Si produce un ombra alla stessa ombra. Un muro dove non ci
sono medi, dove l’immagine guardarsi e guardare è nell’accettare il buio. Mi cerco dentro di esso. Un
rilevamento fotografico che mira a scoprire un passaggio temporale senza la sublimazione in un sodalizio
fra attimo visivo ed equilibrio geometrico come direbbe Cartier-Bresson. Tento di eliminare la posizione
sopraelevata per guardare dall’interno: sinergia di vissuto e vissuti. Un corpo che vive attraverso il luogo
al quale non è dato di conoscere la sua natura. Esiste nello scatto una volontà di regalare l’emozione a
quel corpo7. Sentimento sotterrato: attimi, momenti sensazioni condivise concesse per il tempo di posa.
Due figure: il fotografo e l’attore si appropriano di uno spazio comune, nel quale si cercano. Non avrei
difficoltà a definirmi cieco e sordo. A volte vorrei provare la luce di una infermità per trovare la mia vera
natura. “Fuggi da ciò che è subdolo da ciò che continua a non esprimersi chiaramente8. Quante sofferenze
mettono radici nel chiaroscuro dell’anima! Fai quindi in modo sempre che gli ascessi maturino al più
presto. Ciò che resta nell’ombra non trova la sua vera luce. Mi trovavo a Milano dentro un Bar di periferia
e cercavo un’immagine da proporre per un concorso di scultura. Ad un certo punto sento una sensazione
sulla mano. Un leggero solletico camminare dal polso verso il gomito. Stranamente non reagisco a questa
sensazione ma semplicemente guardo in quella direzione senza muovere alcun arto. Una coccinella sta
curiosando tra le pieghe della mia pelle. Mi sento immediatamente pervaso da una sensazione di leggerezza.
Lascio che cammini un poco poi soffio leggermente. Ella non si muove come a dire che non sei tu a
decidere. Appena penso questo si alza e vola verso la porta dalla quale entrava una gran luce di mezzogiorno.
Tutto questo ha significato il sostanziale apprendimento di lasciarsi guidare dalle emozioni e far si
che i muratori delle mie emozioni lavorino dall’interno per stupire la mia reale immaginazione. Comprendo
d’esser io il muro di me stesso allora lo fotografo per cercare quell’anima che ne è racchiusa. Ciò che
rimane è il tegumento: un involucro sociale simbolico del corpo oramai sbiadito dalla mancanza
d’emozione. Un’anima scura: traccia indicale di attese alla finestra.
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