Out of Case
Tempo fa spostando un tavolo ho visto guardarsi due sedie, di fronte, come persone.
Ho preso quelle sedie e le ho portate in diversi luoghi: nel parco, sul sentiero di campagna, per strada, in un campo da calcetto, su una terrazza. Ho voluto osservarle mentre chiunque poteva sedersi, fermarsi, passarvi in mezzo, oltrepassare quel varco; a volte non è successo nulla. Le due sedie “fuori posto” (out of case) come oggetti destinati a trasformarsi perché non più destinati all’uso. Noi siamo destinati all’uso o siamo pelli, vesti?
Poi ho chiesto a diverse persone di scegliere una parola da portare con sé. Una parola “da lasciare”. Dunque ho portato una sola sedia con me e tutte le parole come ospiti della mia casa.
Out of case è parte di un lavoro più ampio dal titolo Skin. Pelle, come ultima frontiera tra io e mondo. Pelle come sembianza. Abito. Muta. La nostra storia nelle cose, sulla loro superficie. Sulla pelle che è il non-luogo “tra” me e il mondo, è ciò che mi nasconde e ciò che mi espone. È un luogo stranissimo. e che sembra essere, ma soltanto sembrare, “finita”. Attraverso la pelle io sento, io entro in contatto, attraverso la bocca io respiro, io racconto. Se in questa pelle io vivo, in questa e in nessun altra, io sono cosa tra le cose. Tutte le cose si toccano dando vita a una nuova geografia.
Gli oggetti vissuti ricordano, (ci ricordano?).
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