Morn of Movement
(Che potrei provare a tradurre come “nato di movimenti”, quindi di nuovo “impronta” del movimento) è elaborata nuovamente a partire da un processo, non strettamente di calco, ma comunque di impronta: colando cemento liquido in una cassa forma solcata all’interno da una specie di rete di fili metallici, in modo da interrompere la continuità del vuoto.
Zingerle, stando a quanto lui stesso afferma, cercava di mantenere una certa “libertà” nella scultura, evitando la strettoia posta dalla tradizione plastica che la interpreta o “per via di levare”, come voleva Michelangelo, o “per via di aggiungere”, come suggeriscono le pratiche d’atelier e la necessità del modellato. L’artista ha cercato invece di fare un’altra cosa, partendo da un libero movimento del corpo e della mano, da un segno grafico che in qualche modo accarezza, cioè lascia risuonare, la memoria di una specie di grande fossile, con un nucleo, un tronco (colonna vertebrale), un’appendice pinnata. Non è nulla di preciso e definibile, soltanto un’eco. Da questo si passa alla messa in forma (negativo), cioè alla preparazione del contenitore e poi, finalmente, attraverso la colata (né aggiunger né levare), l’artista perviene alla scultura, “sua” ma “non sua”, forma-base anch’essa, di grandi dimensioni, che si erge come una specie di primitivo totem, memore di mari arcaici, di fossili e di depositi sedimentari.
La scultura è, per sua natura, divisibile concettualmente, ma solo così, in “corpo” e “superficie” e, io credo per questo, una parte significativa dell’esperienza plastica moderna, si è rivolta al tentativo di infrangere, di compromettere questa dicotomia: Henry Moore, per esempio, in alcune opere cruciali della serie Mother and Child, ribaltando o meglio estroflettendo l’interno all’esterno; prima di lui Brancusi, la cui riflessione sulla superficie arriva al punto da compromettere la consistenza del corpo, da contrapporre, se vogliamo, l’apparenza alla sostanza e far prevalere la prima (L’inizio del mondo). Zingerle si inserisce in questa sequenza perché condivide l’appassionato interesse o, per meglio dire, il bisogno di riflettere su questo elemento imprescindibile. “Che cos’è la superficie ? dove comincia e dove finisce ? che cos’è questa cosa che fa la forma ?”, si domanda l’artista “Infine, è tutta luce quel che noi vediamo. Tutta e soltanto luce.”
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