Memorie
di rinchiudere un nostro simile tra 4 mura, di disperdere i suoi ricordi e cancellarlo
dall’esistenza?
Nei manicomi si sperimenta, si gioca con la carne umana, persone che nessuno vuole, persone la cui dignità è stata tolta, diventate un un numero di matricola stampato su una cartella clinica piena di fogli, diagnosi e chissà quali torture mascherate dietro ai più svariati e complicati nomi scientifici.
Come ogni cosa, tutto ha inizio e una fine, esistono posti dove questi uomini dimenticati da tutti vengono messi a riposare, stanchi e distrutti da una vita priva di senso, solo una foto, un nome e una data.
Questo lavoro fotografico nasce con l’intento di riportare in vita persone a cui è stata
drasticamente e malamente tolta, privandole della libertà e riducendole a cavie.
Poggiare l’occhio sulla macchina, inquadrare l’ovale è una sensazione strana, quasi
mistica, nel momento in cui si blocca il fotogramma mi trovo in contatto con loro, mi sembra di sentire le loro sofferenze e i loro pensieri. C’è un mix di paura e rispetto che mi blocca ma mi spinge a continuare, sono li per dargli voce, quella che per molti anni è stata soffocata.
Il tempo ha dato più vigore alla loro forza emotiva, le crepe sul vetro che ricopre il volto
trasmettono la voglia di uscire, la voglia di rompere quella campana di vetro infetto in cui
hanno vissuto, l’acqua penetrata all’interno sfuoca l’immagine di uomini e donne, come se
fossero in disparte, stanchi ed esausti di combattere per rimanere in quella vita.
Le tonalità di grigio che compongono questi immagini rispecchiano appieno una
vita vissuta chiusi in una stanza, il sole non penetrava, non faceva loro vedere il vero mondo.
Il mio è stato un viaggio silenzioso, ma consapevole del fatto che attraverso le
immagini avrei potuto donare loro un piccolo spazio nella realtà, un momento di vita,
forse quello che loro hanno sempre sperato.
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