Bedbug Castles
Esiste un’opinione comune, una percezione diffusa della Storia, per la quale le civiltà si affastellano le une dopo le altre in una prospettiva saldamente teleologica. In questa idea di Storia, il ruolo della memoria è quello di custodire le tracce del passato e, allo stesso tempo, di erigere una tradizione che in qualche modo influenza il presente con un (pesante) edificio di norme e canoni.
Esiste, però, anche un’altra idea di Storia. Una Storia fatta di cicli e di ritorni, di sviluppi possibili ed evoluzioni mancate, una Storia in cui la memoria scompagina la propria compostezza di ricostruzione artificiosa e procede per tentativi, per compresenze, per contiguità di presenza e assenza.
All’interno di questa Storia, che si muove con l’ambigua temporalità della spirale, la costruzione della memoria si fa ars combinatoria, gioco ripetitivo, cantilena, diviene un’istantanea impossibile, una stabilità effimera seguita da immediata trasformazione.
Questa idea informa di sé la struttura dell’opera e i materiali stessi di cui essa è composta: da una parte l’impossibilità dell’edificio memoriale di “tenersi” e di darsi se non nella (in)compiutezza delle proprie mutazioni; dall’altra un castello di castelli in cui pieno e vuoto si equivalgono e si sostengono l’un l’altro, e la cui (ri)composizione è scandita dalla durata primordiale della filastrocca cantata, traccia di una memoria antica, orale e corale.
Nessun castello ha il sopravvento, nessuna costruzione è più vera delle altre, ma è l’insieme delle combinazioni a restituirci la sensazione di una dialettica perenne tra Storia e Memoria, di un archivio metaforico sempre sul punto di assestarsi e mai veramente “finito” e normativo.
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