Manifesto artistico: Le incolmabili fenditure nello Spazialismo poetico
Editoriale, Piacenza, 06 August 2013
Competenze: Luogo per Meeting, Social Media Communications
Verità e luoghi dell’arte

Dal luogo di esordio

Faticosamente esula

Ciò che abita vicino all’origine.

La migrazione (di Holderlin)



L’arte non è una meta ma piuttosto l’inveramento, l’atto finale, di un proposito di ricongiungimento.

Da una parte il sentire pregno dell’artista, dall’altra l’espressione fattuale, e in divenire, di una realtà creatrice che attende “soltanto” di rendersi accadimento, in quanto opera.

Tra di loro l’arte, congiunzione perfetta e disvelante di un incontro.

Arte dunque come fattore triadico, il cui sviluppo è intrinseco alla natura stessa dei protagonisti coinvolti.

L’artista, colui che svolge la sua personale esistenza al servizio del proprio gravido limite umano; l’opera d’arte, corda tesa di un arco che attende con spontaneità il suo arciere; l’arte, origine e destinazione di una sintesi, umile come nebbia affiorante.

Una triade la cui compartecipazione e comunanza s’invera all’interno di uno spazio vuoto che vive dinamicamente del rapporto tra luce e buio, melodia e silenzio, verità e parola.

In questo senso, se riferendoci all’arte intendessimo attribuirle una qualche relazione con la verità, la verità di cui parleremmo non si esaurirebbe nel proprio manifestarsi, ma si caratterizzerebbe come atto auto avvalorante e auto riproducente, in virtù di una forza e autenticità che gli deriverebbero dalla poesia di un incontro che ha finalmente ri-avuto il suo naturale compimento.

Dunque la verità dell’arte è forse una verità dinamica secondo un duplice significato, per il suo elemento di ricongiunzione e per il suo intrinseco diventare, fluendo.

Ma per tornare e provare ad approfondire l’asserzione iniziale, riferita a questa specie di disegno teso a ricomporre ciò che qualcosa o qualcuno avrebbe originariamente disgiunto, prenderemo a prestito un oscuro frammento di Eraclito, uno tra i più controversi: “il sorgere dona il favore al tramontare”.

Che rapporto può mai esserci tra il sorgere e il tramontare? Di primo acchito i concetti parrebbero antitetici; il sorgere dona chiarore, il tramontare la toglie (nel pensiero greco il tramontare va inteso come l’entrare nel nascondimento). Ma se considerassimo l’estratto di Eraclito dal punto di vista dell’arte, il pezzo, a mio avviso, assumerebbe un significato decisamente più decifrabile.

Non esiste arte che non si sia originata, e quindi che non provenga, da una sofferenza procreatrice. E se accettiamo la similitudine che indica il dolore o la sofferenza come concetti assimilabili alla privazione di luce, possiamo certo considerare la metafora di un arte come generatrice di luce, in quanto figlia delle tenebre. Ecco che allora un sorgere che ricambi il favore alle tenebre, ovvero un’arte che riconosca al dolore la maternità – paternità della propria vena creativa, è concetto tutt’altro che astruso o inesplicabile. Ma vista così, e rimanendo nel solco della metafora alba – tramonto, luce – buio, il ricongiungimento dell’arte a cui ci riferiamo, quel ricomporsi atavico così colmo di elementi valoriali, altri non è se non la trasposizione di un luogo ideale in cui luce e buio si ri-fondono in una perfetta consonanza “inappariscente”.

È di questa regione-ragione che dovremmo occuparci se amassimo l’arte fino al punto di rispettarne l’ossimoro di cui si nutre. Una fenditura che riceve luce dal suo adombrarsi, musicalità dal proprio ovattato oblio, verosimiglianza dalla propria afonia poetica.



Quel gravido sentire

Ah, mio caro fratello, a volte so talmente bene quello che voglio. Perciò nella vita e nella pittura posso benissimo fare a meno del buon Dio, ma non posso, nella mia sofferenza, fare a meno di qualcosa di più grande di me e che è la mia vita: la potenza del creare: che se, frustrato fisicamente da questa potenza, uno cerca di creare pensieri invece di figli, resta ancora nell’umanità, nonostante tutto

Lettere a Theo (di Vincent Van Gogh)



Certamente l’artista è un frequentatore assiduo di un luogo del tutto peculiare, ciò è dovuto a ragioni precipue in apparente contraddizione tra loro, ma a ben vedere ineccepibilmente coerenti. I luoghi dell’artista sono innanzitutto zone franche in cui non sussiste alcuna potestà giudiziale. Spazi di libertà assoluta, la cui unica prerogativa riguarda tutt’al più una tensione valoriale verso l’onestà intellettuale. Territori di tutti che si qualificano per intimità e coraggio. Terre madri, la cui sofferenza feroce si staglia nel cielo delle felicità integre e primordiali. Ma l’artista, che quasi mai ha assunto un proprio esserci consapevole, vive in prevalenza attraverso quei luoghi con forte ambivalenza, e sovente fraintende il proprio personale esser presente con il suo far parte del luogo. Il tema è certamente complesso poiché di quel luogo l’artista farebbe certamente parte in senso pieno, ma al contempo il suo stare in luogo si caratterizza per provvisorietà. Così egli è co-stretto attraverso una doppia, doppia dimensione: di ospite e di ospitato ma anche di soggetto operante e spettatore. Due ultime, brevi, annotazioni su questa regione così singolare. La prima riguarda l’aspetto dimensionale, la seconda il suo grado di illesità; due elementi concettualmente distinti che tuttavia in questo caso analizzeremo insieme, a partire da un interrogativo di fondo, è possibile che le dimensioni di uno spazio siano inestricabilmente connesse e direttamente proporzionali al grado d’illesità dello stesso? Per rispondere a questa domanda è necessaria una puntualizzazione di senso. Se l’illesità fosse un perimetro quantitativo e relativo all’etimologia, dovremmo forse pensare che uno spazio illeso è tanto più esteso quanto meno è toccato, ma poiché l’illesità è un valore qualitativo, in questo caso, tanto più questo luogo è frequentato e toccato, e persino “sporcato” dal fare dell’artista, tanto maggiore è la sua ampiezza qualitativa potenziale. L’arte si è detto è origine e meta di un incontro, in questo senso è luogo in constante divenire che sussiste, e persiste in forma latente, all’incontro tra artista e opera d’arte. La sua capacità recettiva è direttamente proporzionale al grado di illesità. Ma l’illesità di cui si parla è inversamente proporzionale al livello di integrità. In altre parole lo spazio dell’arte, per inverarsi e quindi rendesi fruibile all’artista, che vi dimora ma non vi abita, deve oltre passare la propria integrità per rendersi davvero territorio illeso e quindi potenzialmente accogliente. E tanto più l’artista rompe quest’integrità sterile con la sua gravida umanità creatrice, tanto maggiore sarà la disponibilità quali quantitativa dell’arte, la quale si rende tangibile attraverso l’opera. C’è tuttavia una sola condizione imprescindibile affinché lo spazio quali quantitativo dell’arte, il territorio di cui parliamo, sia tanto più vasto e qualitativamente valoriale, tanto più lascia la propria integrità per donarsi a una compiuta illesità. E questo requisito, che più propriamente potremmo definire un prerequisito, riguarda in effetti l’artista ospite – ospitato, soggetto operante – spettatore. Esso in sostanza deve assumere su di sé, e fino in fondo, l’onere della propria gravida limitatezza di essere umano. E’ il limite la chiave d’accesso, è la sua accettazione quasi consapevole, e carica di dolorosa impotenza, la via fenditrice per avere accesso al prezioso territorio dell’arte. Le innate consuetudini dell’arte stanno tutte qui, nell’offrire ad una limitante manchevolezza una potenzialità creatrice.



I chiaroscuri dell’arte

Guardare la luce del sole ci abbaglia e abbiamo bisogno di qualche nuvola in cielo per tornare a desiderarne la cruda e inattaccabile diafanità. In questo modo, attraverso un’assenza parziale (e illusoria), il nostro fruire della luce si rende possibile e, vedremo, persino più autentico.

Concedendoci una breve divagazione, su cui torneremo più avanti, ciò che appena descritto, metaforicamente parlando, non sembrerebbe dissimile a quanto accade riguardo la sfera desiderativa di ciascun essere umano. Se infatti pensiamo al desio forse potremmo convenire che tra il momento della piena e satolla realizzazione e l’istante che precede e anticipa lo stesso, il secondo si fa preferire al primo, per carica energetica e vitalità.

All’inizio di questo nostro impegno, abbiamo visto come il sorgere e il tramontare, che certamente divergono radicalmente nel significato, tuttavia, si tengono l’un l’altro attraverso la loro reciproca relazione con la luce del giorno e con il buio della notte. Entrambi vivono e si realizzano attraverso una duplice accezione relativa a ciò che lasciano e a ciò che si apprestano ad incontrare. Ora, riguardo all’arte, abbiamo ipotizzato che essa non vada intesa come una meta a cui giungere ma semmai come “l’inveramento, l’atto finale, di un proposito di ricongiungimento”. In questo senso tornando al sorgere e al tramontare l’analogia ci pare significativa, poiché nel considerarne le peculiarità viene spontaneo tener presente ciò che questi due momenti annunciano, ciò a cui tendono, piuttosto che quello che hanno lasciato dietro di sé. Ma andando più a fondo nell’analisi, ci si accorge come, nel caso del sorgere, il nesso con l’avvenire delle luce sia immediato, mentre nel caso del tramonto l’incombere della notte, a cui effettivamente si pensa, sia definito attraverso un nesso privativo: la notte come assenza di luce. A questo punto sorge spontanea una domanda, cosa penseremmo se alla definizione di notte come assenza di luce, si affiancasse quella di giorno come assenza di buio? Tutto ciò è chiaramente prodromico per ricondurci ad un nuovo interrogativo che attraversa tutto questo nostro lavoro, vale a dire: da dove ci giunge l’arte? Un piccolo cenno, nella direzione di una risposta, è già stato fatto quando si è parlato di un legame stretto e inscindibile tra l’arte e la sofferenza del mondo. Detta in forma più esplicita, e forse un po’ troppo sbrigativa, potremmo azzardarci ad affermare che l’arte senza dolore semplicemente non è. Torniamo a questo punto alla “provocazione” di un giorno per la cui definizione abbiamo utilizzato una correlazione relativa ad un’assenza o mancanza di buio. E, al di là del presunto pungolo intellettuale, vi è certamente del vero nella reciprocità che considera il buio in quanto assenza di luce, tanto quanto la luce sia assenza di buio. Ma quello che più ci interessa, è questo senso di mancanza che sembra affiorare in tutto il ragionamento svolto fin qui; un’arte che anela con tutta se stessa alla luce, al nitore, ma che non dimentica il proprio luogo di origine e anzi da lì, dal quel dolore colmo di creatività che urge di essere liberato, coglie la forza per esprimere tutta la propria traboccante perspicuità. Avevamo definito l’arte come l’incontro – inveramento tra artista e opera d’arte, ed è precisamente nel cuore di questa relazione che deve avvenire lo sviluppo delle potenzialità testé descritte. All’artista compete di recarsi emotivamente in quel luogo inappariscente (luce e buio convivono ancora con la loro indefinibilità), dove si origina lo scintillio fondativo, a cui diamo il nome di arte; all’opera spetta di mettere in relazione quella scintilla con il gioco dei chiaro scuri della vita reale.



Entrare nel nascondimento

Come si è detto, questa insolita formulazione, entrare nel nascondimento, ci viene direttamente dal mondo greco, il quale riferendosi al tramonto, non si figurava un venir meno del sole ma semplicemente un suo transitorio celarsi. Quasi che la correlazione luce buio, in estrema sintesi, si costituisse di una fase manifesta e di una latente. E che in fondo quest’ultima non fosse altro che una simulazione o tutt’al più una condizione passeggera e intrinsecamente effimera della luce.

Ancora una volta ci imbattiamo in quella che sembrerebbe essere, sempre di più, una dualità inestricabile; luce e buio come facce opposte di una stessa medaglia. Ciò è tanto più vero quando ci riferiamo al mondo dell’arte. Proviamo a connettere tra loro alcune considerazioni fin qui espresse.

L’arte ha certamente una robusta correlazione con l’afflizione del mondo e all’artista spetta di predisporsi ad un viaggio che abbia come meta il raggiungimento di quel luogo, che abbiamo definito inappariscente, e che abbiamo voluto rappresentare come un territorio dove si genera la scintilla da cui scaturisce l’avvio del processo artistico. In quella terra l’artista porta con sé, ineluttabilmente, il proprio limite di essere umano, ed egli è tanto più artista quanto più accetta questa sua “imperfezione” con ostinata e mai doma volontà fenditrice. Torneremo senz’altro sulla questione, ma per adesso limitiamoci a fissare un nodo essenziale di questo nostro ragionamento. Nell’ottica dell’arte, o ancora più precisamente dal punto di vista dell’artista, con entrare nel nascondimento noi vogliamo intendere quell’intima e drammatica condizione dell’artista, il quale assume il suo limite, il proprio ottenebrarsi, come viatico di ricongiungimento verso la verità dell’arte, verso la luce della creazione. L’artista intuisce la tragicità di questo suo intraprendere che peraltro si incardina su una duplice valenza drammatica; da un lato entrare nel nascondimento significa disporsi a lasciare il proprio individuale patire – sentire - gioire, per fondersi in un rilievo dello stesso, primordiale e universale al contempo, dall’altro questo sforzo lacerante, del tutto contro natura, poiché spersonalizzante, al momento del suo naturale compimento nell’opera d’arte rivela tutta la sua labilità di fenomeno transiente; e così ogni volta è un cominciare destinato a farsi lasciare in funzione di un nuovo intraprendere.



Poesia e verità

Prima di procedere nello svolgimento del tema in oggetto, è opportuna una puntualizzazione che pur essendo desumibile da quanto asserito fin qui, è tuttavia doverosa per rilevanza e valore complessivo della cosa in sé. Quando ci riferiamo alla categoria dell’arte, intendiamo comprendere ciascuna tra le differenti forme espressive, tra gli svariati linguaggi, che l’essere umano, fin dalle sue origini, ha saputo, e per certi versi dovuto, agire sul mondo. Crediamo talmente tanto in quanto testè asseverato che riteniamo persino pleonastico l’uso del plurale riferito al sostantivo arte. Semmai è il termine arte a non soddisfarci del tutto, sia per una radice etimologica fin troppo generica, sia perché il vocabolo appare tutto sommato carente sul piano del suscitare immaginativo. Tutt’altra cosa per poesia, parola talmente carica di fascino e preveggenza da apparirci persino onomatopeica. Ciò detto l’arte, che da ora in avanti chiameremo poesia (e con ciò tuttavia non intendiamo avvalorarne una presunta supremazia, in senso heideggeriano), è una sola e ogni volontà di distinzione, sul piano strettamente concettuale, ci pare non sostenuta da argomentazioni eloquenti.

Ma addentriamoci nel merito del tema poesia – arte e verità. Abbiamo detto in precedenza che se esistesse una qualche verità desumibile dalla poesia …. , essa dovrebbe caratterizzarsi per l’estrema dinamicità. Dinamico è tutto ciò che si muove, o intende muoversi, in relazione a qualcosa. E nel caso della poesia è proprio questo mettere in azione, che a sua volta determina nuovo dinamismo, a generare lo sviluppo di un processo caratterizzato da verità. Una verità che cammina a partire dall’onesta necessità dell’artista, il quale agisce se stesso in attinenza e in connessione con l’opera d’arte che avanza, anch’essa, attraverso il suo divenire provocato dal proprio creatore. E’ questo ricongiungimento, o meglio, è questo proposito di ricongiungimento l’atto di verità che si determina nella poesia. Giunti fin qui, a questo punto, è imprescindibile un interrogativo, se come abbiamo detto dalla poesia scaturisse un accadimento connotato da verità, ciò implicherebbe che la stessa debba anche ineluttabilmente occuparsi di investigare la verità? Compiendo certamente una sintesi eccessiva, e perciò grossolana, potremmo azzardare che la storia dell’arte sia suddivisibile tra chi ha legato la propria ricerca alla verità e chi lo ha fatto in relazione alla realtà. E fatte salve le premesse di genericità, non siamo certo in condizione di offrire patenti di autenticità artistica a gli uni o agli altri. In certi casi (sono probabilmente prevalenti) l’arte ha avvertito l’esigenza di tenersi avviticchiata al mondo reale, anche in senso strettamente icastico; in altri, ha scelto volutamente di rendersi sconnessa con la Storia e ogni forma di tangibilità. Occorre inoltre precisare che i termini realtà e verità, per un’ampia opinione pubblica, non sono certo visti in contrapposizione. Poiché esiste naturalmente un’idea di verità non ontologica (in senso tradizionale), per la quale un'affermazione è vera quando esprime degli stati di cose, tra le crepe e interstizi del mondo; un’arte per dirla con il poeta Guido Oldani che “metta in scena la fisica, non la metafisica”, la cui angolazione e valenza sia principalmente etica. Tutto ciò detto per affermare che la poesia – arte non si determina sulla base dell’oggetto della sua scelta speculativa. Semmai sono l’afflato, la fatica, l’onestà, i costituenti fondativi e determinativi. Quindi per tornare a quella verità tanto insistita, essa non riguarda in nessun caso la scelta di campo del fare artistico, ma semmai una sorta di fondamento etico, una precondizione a cui tendere e da cui intraprendere, e ciò si badi bene, al di là del risultato formale, poi conseguito nell’opera. Forse potremmo concludere questa controversa disamina con un pungolo che tenga insieme quanto detto fin qui, in questo paragrafo: l’artista è colui che tende al mondo che non è, anche attraverso il mondo che è.



Spazialismo poetico

Mario Luzi, a proposito della poesia di Rimbaud, parlò di un diaframma quasi colmato tra la parola e la cosa, fra la lingua e gli oggetti. Tutta la storia dell’arte è contrassegnata dal tentativo di incunearsi in questo luogo dell’anima, per abitare questa dimora, per assaporarne sinestesicamente i richiami. Ma la sorte dell’artista, che non si discosta dal più generale destino dell’uomo, è quella di vivere il dentro e il fuori di quel luogo ben più permeato dal sentimento di chi si dispone al distacco che non da quello di chi si appresta all’incontro. E d'altronde la seduzione dell’arte, della poesia, giocano proprio la loro irresistibile fascinazione su questo anelito che mai raggiunge la propria stabilizzazione. Si è detto inoltre, riguardo alla sfera desiderativa, che essa vive dentro di noi con ben maggiore afflato nella fase che precede il compimento del desiderio (come moto a luogo) di quanto non accada ad aspirazione conseguita, che invece si caratterizza per una velatura melanconica. E l’essere umano, e ancor più l’artista, che avverte naturalmente dentro di sé questa spinta inarrestabile e reiterata verso il proprio miglioramento, come ci ricorda amaramente Leopardi nello Zibaldone (…..sentire e sopportare il detto mancamento, e l’infelicità che risulta dal non essere nello stato proprio della propria natura ….), percepisce questo tendere al proprio progresso come ragione ineluttabile, in un sovrapporsi emotivo che alterna, alla voglia del conseguimento, la paura della perdita. La poesia (intesa come arte) è l’espressione più pura della ricerca di un luogo, dove ad attendere c’è un’opera d’arte nella sua fase quiescente. La poesia (arte) è la rappresentazione tangibile di un anelito che riguarda da vicino l’essere umano nel suo più recondito, drammatico, e semplice struggimento. Come “il capriolo pare adempiere a tutta la sua missione, quando fugge via leggero sulle messi in germoglio” (Goethe, “poesia e verità”), così l’artista coglie una rispondenza giungergli da lontano e garbatamente si avvia coll’impossibile attraverso la sottilissima fenditura della realtà – verità di ogni giorno.



Incolmabili fenditure

Cos’è davvero la poesia (arte) e cosa la muove, cosa la abita? Non occorre certo avere la sensibilità di un grande artista per avvertire incunearsi tra questi interrogativi il timbro maestoso e grave del silenzio; un silenzio tenace, ma denso di fremiti e intonazioni; l’essere umano al cospetto della segretezza della propria e altrui vita. La poesia (arte), forse, è null’altro che sete, ma così pura, così sincera, così coraggiosa, da rendere possibile il palesarsi di un’oasi, distante dal miraggio per la sola incombente corporeità. Ciascun essere umano, senza distinzione tra creatori o fruitori sinceri, che accetti di accollarsi l’incombenza di questo spogliante cammino può ambire ad occuparsi di poesia (arte), meglio se per amarla soltanto. Ecco venire innanzi, appalesarsi, queste “Incolmabili fenditure”. Lucio Fontana scelse la via del taglio per saldare, o congiungere, l’interno-finzione dell’opera, all’esterno - realtà della luce; un’operazione altrimenti incolmabile. Ma la sua non fu, almeno consapevolmente, una poetica dello spazio, ma piuttosto la smentita e l’invalidazione di una rappresentazione dello stesso, in senso tradizionale. La poesia (arte), nel suo ancestrale ludico vagheggiare con i colori e le forme, i suoni e le parole, forse soprattutto gli oblii, scruta, solo lambendola, la verità. Ma questa volontà fenditrice che ha in sé l’ossimoro di un fallimento e di una riuscita, lascia storditi; non la meta, ma il proposito del raggiungimento.

Se, come abbiamo detto fin qui, l’artista è colui che svolge la sua esistenza al servizio del proprio gravido limite umano, allora incolmabile fenditura è pregnanza gestante tra le nuvole, solida ala di farfalla, cantabile eco di vento.

Un’incolmabile fenditura ci separa dalla verità, ma solo il coraggio della poesia (arte) può cogliere il nesso che distingue l’utilità dalla necessità, l’impellenza del ricercare. Ma di cosa si sostanzia allora questa ricerca? Se vi è ricerca, necessariamente, dovrà manifestarsi uno spazio; un luogo vuoto e improbabile, ma denso di materia poetica. Uno spazio concettuale, visibile solo attraverso un’intransigente e temeraria velatura artistica la quale, attraversando quell’ostinato paradosso dell’arte, si predispone al chiarore per il solo, proprio, desiderio di “disascondere”. Lì, artista e opera d’arte si esplorano reciprocamente, nell’alveo del loro luogo tempo immemorabile; così, al loro potenziale stanziarsi, la verità del loro incontro si rende accadimento. Ma ritorniamo alla domanda iniziale, che cos’è, allora, la poesia (arte)? Di fronte al mistero della vita, inafferrabile come rondine in volo; a una natura “non verità solare ma oscuro mistero da scrutare” (G. Carlo Argan in riferimento a Leonardo), la poesia (arte) mette a disposizione uno spazio denso di lucente, ma abbagliante, verità; l’artista è colui che accetta di occupare provvisoriamente questo spazio, portando con sé la propria onesta e sincera opacità. Si è detto di come, per fruire appieno del sole, abbiamo bisogno di renderlo meno accecante. Sta tutto qui il segreto dell’arte. Ciò a cui tendiamo (la luce) non si confà alla nostra antropica natura ed è per questo che l’arte è così necessaria, perché attraverso un collocarsi nel nascondimento l’artista immola se stesso, a favore del fruire di una luce, finalmente scorgibile.



Oltre il limite

In un contesto in cui abbiamo più volte sottolineato la caratteristica ineludibile del saper convivere con i limiti della nostra natura, coerentemente, affermiamo la non eccezionalità e originalità di quanto affermato fin qui. Tra gli artisti, tutto è già stato scritto e sperimentato. Gli esempi che potremmo portare sono numerosi ma tre, tra gli eccelsi, si qualificano per unicità e visione. Michelangelo Buonarroti seppe stabilizzare la permanenza nello spazio di verità che attiene all’arte, attraverso lo stratagemma del non finito, che infatti permane in modo dirompente nella propria dinamica di ricerca. Non solo egli tenne socchiusa una porta d’accesso ma, ad esempio nella Rondanini, sottolineò la stessa con il marchio della fallibilità umana. Da questo punto di vista, giocando ed enfatizzando con il proprio limite, egli stabilì, e soprattutto stabilizzò, un contatto con la verità, altrimenti inammissibile. Michelangelo Merisi, da tutt’altro punto di vista, non fu comunque da meno; erroneamente considerato il Maestro della luce, egli fu in realtà lo scopritore della rifrangenza dell’ombra. Dando forma alle tenebre, ovvero metaforicamente offrendo la di lui sublime limitatezza, porse alla luce un’opportunità non declinabile, un’infida via fra “gli strappi inconoscibili dell’ombra” (Roberto Longhi). Infine Leonardo, qui il tema della nostra indagine, se possibile, si complica ulteriormente; come per Michelangelo, più che per Michelangelo, anche per Leonardo la tematica del non finito rappresentò una specifica caratterizzazione. Addirittura c’è chi sostiene che nessuna tra le sue opere, possa dirsi davvero conclusa. Leonardo era a tal punto maniacale nella propria ricerca, da rendere di fatto i suoi dipinti delle inesauribili fonti di interrogativi irrisolti. E partendo dal particolare di un problema, da lì, tutto gli sembrava collegarsi ad un disegno sempre più grande, di cui quello specifico, era considerato parte o sezione. Solo all’apice di una scoperta, quando i suoi occhi e la sua mente potevano cingere un’ampia porzione di quell’intero, a cui egli aspirava, per un momento trovava pace. Solo in quei rarissimi casi Leonardo era come rapito da un pathos colmo di riconoscenza e concordia. D'altronde, lui stesso considerava l’amore e il trasporto emotivo, come il frutto a cui giungere attraverso la fatica della conoscenza. Ma questa concezione, ben più che ossessionante, fu di fatto una trappola, tale da indurlo all’abbandono di quelle opere ostinatamente sottrattesi alla perfezione della natura. Si spiega così, forse, lo sfumato di Leonardo. Quasi una sorta di smisurata parcellizzazione; del diluire infinito di una denuncia, nei confronti di una verità, rea di essersi resa, così, umanamente inviolabile.

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