Forse, per questa ricostruzione di un’unità perduta,ci soccorre la voce di un grande lirico, Rainer Maria Rilke, per il quale i ricordi sono alle base di ogni opera d’arte. Prima, però, egli dice, bisogna saperli dimenticare, questi ricordi, bisogna avere, “….la grande pazienza di attendere che essi ritornino….: solo quando diventano in noi sangue, sguardo, gesto, anonimi e indistinguibili da noi, soltanto allora può succedere che la prima parola di un verso, in un’ora rarissima, si alzi ed esca dal loro centro…”
Così scriveva Rilke a proposito della poesia, che è suono purissimo scaturito da ricordi diventati nel corso degli anni indelebile parte di noi. Questa indicazione dell’autore tedesco, tuttavia, sembra poter valere -almeno a parere di chi scrive- anche per la pittura, ovvero sembra poter valere per un artista come Fabio Rota che ha avuto, come appunto sosteneva il poeta, la grande pazienza di attendere che questi suoi ricordi tornassero e che si radicassero come sguardo e gesto da lui indistinguibili: per inverarsi infine come forma ed immagine, come lirica narrazione visiva che si offre tuttavia per frammenti, quasi pagine staccate di un libro o, meglio, di un diario.
Quello che noi vediamo qui, nelle sale del Mauriziano, è in effetti una sorta di diario intimo che affiora da esperienze e memorie di una prima giovinezza, quando, come avrebbe detto Ungaretti, Fabio Rota “ardeva d’inconsapevolezza nelle estese pianure”…
Dunque, ecco questi ricordi che si fanno ora racconto di immagini e di sensazioni: da una parte sembra esserci ancora il profumo del mosto e della nebbia che sale dai canali e dalla terra densa di zolle, dall’altra ci sono gli spogli filari della vite che disegnano, quando l’inverno ha già ucciso ogni colore, grigi ricami sospesi tra il cielo ed i campi, profilo di una pianura dai dilatati orizzonti.
Da un parte ci sono, poi, le vecchie cassette di legno usate per la raccolta dell’ uva, qui accatastate l’una sull’altra a costruire una fragile e irregolare cortina di pieni e di vuoti , installazione d’arte povera che già rievoca, attraverso il calore\colore dei suoi logori materiali, trascorse esperienze di vecchi mestieri e di “ vita dei campi”; dall’altra ci sono le immagini dipinte sulle assicelle di queste cassette e le fotografie incollate sulle medesime, ma dove cominci la foto e dove il dipinto, o dove entrambi finiscano, è difficile dire perché questa è la singolare alchimia impiegata da questo altrettanto singolare pittore che è pure seducente fotografo. Fotografo e pittore di bianchi e di neri, perché di questi colori è intrisa tutta la sua tavolozza, essenziale grisaille per evocare nebbie e brume autunnali, alberi, campi e silenziose solitudini . Senza dubbio quella di Rota è un’ evocazione lirica del paesaggio, sospeso tra racconto reale e visione fantastica, tra immagine oggettiva e gorgo informale, felice connubio di tecniche e linguaggi diversi -la fotografia e la pittura- mai cosi capaci, come in questi lavori, di tessere giochi sottili di travestimenti e false identità, di contaminazioni e metamorfosi. Ma altre identità, altri frammenti di vita sono contenute in queste cassette; che al proprio interno raccolgono ancora altre immagini, piccole foto e piccoli dipinti, vecchie cartoline postali che appartengono a tempi ed affetti lontani, tracce di identità sconosciute, forse frammenti di un perduto discorso amoroso, di memorie e stagioni trascorse.
Come le memorie e le stagioni di Fabio Rota: che tuttavia recupera “i propri frammenti” di vita tornando nel luogo dove per lui è cominciata ogni cosa, dove ogni ricordo ha avuto un inizio.
Questo luogo, già è stato detto, è l’orizzonte della pianura, bianca di brina e di nebbie, deserta di uomini e sospesa in una sorta di evanescente stupore, di assenza incantata di colori: quasi l’artista (che in questa occasione diventa fotografo) volesse tradurre attraverso le immagini alcuni versi di Vittorio Sereni: ” non lo sospetti ancora \ che di tutti i colori il più forte \ il più indelebile è il colore del vuoto” …
In questo vuoto che si schiude su piccoli frammenti di disanimate campagne soltanto gli alberi hanno una loro vita silente, anzi, solo l’albero (tema simbolico tra i più ricchi e diffusi in ogni cosmologia e spesso protagonista solitario delle opere di Rota, foto o dipinti che siano) assume la ieratica sacralità della vita, simbolo del cosmo vivente, asse del mondo, tramite e unione della terra e del cielo, eterno ritorno, rigenerazione continua di vita e di morte.
E non è un caso che la mostra di Rota termini, o abbia invece il suo inizio, con una sorta di vasto retablo dove si staglia un grande albero circondato da lacerti di antiche mappe e di spartiti musicali che scandiscono, assieme alla pianta e ai suoi rami, il tempo della vita dell’artista, il suo passato, il suo presente,il suo futuro.
Giuseppe Berti
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