Libro e mostra fotografica, all’unisono, si interrogano sull’espressione autentica del paesaggio utilizzando come punto di riferimento creativo la figura di Antonioni. Nella sua cinematografia, il regista offre ai paesaggi un ruolo che va oltre il semplice significato di sfondo scenografico. In una condizione di crisi esistenziale, i paesaggi diventano protagonisti, vere e proprie storie, racconti di luoghi esplorati da uomini che hanno lasciato le loro tracce su quella terra calpestata. E le fotografie di Orith Youdovich vogliono essere la dimostrazione di quelle impercettibili e misteriose presenze nascoste. Imparare a guardare e scoprire ciò che non si vede è l’invito che l’artista rivolge a tutti gli osservatori. Dopotutto chi impara a guardare, forse, impara anche a vivere: Tu dici “Cosa devo guardare”. Io dico “Come devo vivere”. È la stessa cosa (dialogo tratto da Il Deserto Rosso, 1964 di Michelangelo Antonioni).
Attraverso una selezione di scatti, la fotografa israeliana instaura un proficuo dialogo con l’orizzonte rappresentativo del cinema antonioniano. L’artista fotografa il deserto, l’orizzonte della periferia urbana, il parco cittadino: luoghi svuotati, privi di azione, in cui l’universo delle “assenze”, dei vuoti incolmabili, riesce ad essere un mondo ben più prepotente di innumerevoli “presenze”. Ogni scatto racconta una storia: echi lontani, ombre sfuggenti, strade vuote di campagna in cui non passa nessuno, case silenziose, boschi e fabbriche in lontananza, immagini attraversate da persone senza volto, di spalle, immobili, sospesi nel tempo. Fotografie vuote ma piene di vita che raccontano altre storie di vita in cui l’assenza sfida l’osservatore e il paesaggio restituisce lo sguardo a chi osserva. Foto dallo spazio aperto, in movimento, quasi danzante, un tramite tra mondo e uomo.
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