Mentre gran parte del mondo dell’arte moderna e contemporanea era raccolto, in quella fine degli anni ’70 del secolo scorso, in esperienze di tipo concettuale (inglobando, in queste attività di genere creativo, l’Arte Povera, la Land Art e la Body Art) l’interesse artistico di Arcangelo Moles, era concentrato su un genere di rappresentazione pittorica d’impegno sociale, che è stata definita Nuova Figurazione. Essa nacque in forma parallela all’Arte Concettuale e in contrapposizione al linguaggio Informale della pittura, anch’esso imperante in quegli anni. Quello della Nuova Figurazione è stato un genere artistico che si discostava dalla corrente del Realismo puro per i toni assurdi, a tratti illogici e persino irrazionali, sempre e comunque di denuncia, fortemente espressivi e finanche onirici, con cui l’artista descriveva la realtà.
In quegli anni, Arcangelo Moles si lasciò prendere in maniera piena dalle istanze della Nuova Figurazione, intrecciando un rapporto stilistico/semantico/speculativo con l’opera di alcuni tra i rappresentanti di questo movimento pittorico, tra i quali: Renzo Vespignani e Gianfranco Ferroni. Esperienze creative, le loro, di gran lunga differenti da quella di Arcangelo Moles: salvo, però, che nella maniera di dividere e di definire gli spazi, all’interno del piano prospettico dell’opera. E non solo. Era molto omogenea e somigliante, a quella di Vespignani e Ferroni, la maniera con la quale Arcangelo Moles denunciava, attraverso le figure e le forme, l’avanzare di una società industriale tecnologicamente avanzata, che andava producendo, di pari passo, una massificazione della società: così com’è stata teorizzata dalla Scuola filosofica di Francoforte, attraverso Theodor Adorno e Herbert Marcuse.
Sono stati quelli, pure, gli anni in cui nell’arte, come nella letteratura, si è fatto un gran parlare della differenza che intercorreva tra la visione speculativa/intellettuale del “significato” (che si associava alla “semantica del segno”) e l’elemento formale del “significante” (inteso, al contrario, come faccia estetica, e quindi esterna, della figura e della forma). Alla fine degli anni ’70, attraverso una mostra personale dedicata al fenomeno, allora prepotente, dell’inurbamento delle città, Arcangelo Moles ha presentato, alla Galleria Spazio di Potenza, alcuni suoi disegni a china e a tecnica mista. Attraverso queste opere, egli ha voluto denunciare la mutazione del “vivere insieme”, in corrispondenza con il miracolo economico italiano, ovverosia con la conquista del boom economico: caratterizzato da una forte crescita produttiva e da un formidabile sviluppo tecnologico. Una situazione, questa, che portò larghi strati della popolazione a una concentrazione demografica nelle città: non più intese come luoghi del “vivere associato” ma - in maniera quasi esclusiva - come spazi di lavoro e di produzione terziaria (ovverosia di servizi).
Arcangelo Moles ha denunciato tutto questo, dando piena sostanza a delle immagini ornate che hanno percorso, in maniera trasversale, quella che, in quel periodo, fu definita come la “cultura dell’underground”. Essa si poneva in maniera alternativa alla “cultura di massa” mettendo in primo piano la “dimensione del sotterraneo” e “l’ampiezza del resiliente”. A scriverne il manifesto estetico è stato - in qualche misura - Marcel Duchamp (molto apprezzato da Arcangelo Moles) sulla scia di quei fenomeni - letterari e poetici - della “beat generation” e dell’”on the road” che dagli anni ’50 del Novecento, iniziarono a percorrere, in maniera globale, il mondo intero: abbattendo, in questo modo, in “dimensione transeunte” (quello che è stato, poi, definito come “nomadismo culturale”) la differenza tra occidente e oriente. Collateralmente alle scelte estetiche effettuate in questo periodo, Arcangelo Moles ha intrapreso, con sua moglie Angela, un viaggio in India: che molto l’ha segnato sul piano della sua capacità individuale di rapportarsi alle dimensioni del Metafisico e del Trascendente. Lui, artista di cultura cristiana, leggeva quel mondo come una proiezione dell’”occhio che tutto vede”: capace di rappresentare, sul piano simbolico, la verità spirituale e il risveglio interiore, a qualsiasi latitudine, o religione, ciascun individuo appartenga.
Ed è sempre della fine degli anni ’70 l’impegnata partecipazione di Arcangelo Moles alle attività condotte dal Co.S.P.I.M (dal Collettivo di Pittori - Scultori - Incisori - Musicisti, diretto dall’artista Ninì Ranaldi) con sede in Vico Luigi La Vista, a Potenza. A questo periodo risale l’inizio di alcune sue amicizie artistiche, che sono durate nel tempo: Salvatore Comminiello, Giovanni Cafarelli, Gerardo Cosenza, Marco Santoro, Gerardo Corrado D’Amico e Roberto Santomassimo
Con gli anni ’80, l’esperienza artistica di Arcangelo Moles si è consolidata, prima, in ambito grafico, con la collaborazione alla rivista d’arte contemporanea, Perimetro: che gravitava intorno all'Associazione Arti Visive Quinta Generazione, cui facevano parte (oltre a lui stesso): Giovanni Cafarelli, Felice Lovisco, Marco Santoro, Gerardo Cosenza, Salvatore Comminiello, Salvatore Sebaste, Luigi Lapetina e Giuseppe Filardi. E, poi, attraverso i contributi editoriali, da lui stesso offerti, all’attività organizzativa, di tipo espositivo, svolta da don Vito Telesca: allora rettore del Seminario di Potenza e poi divenuto vicario dell’arcivescovo metropolita, del capoluogo regionale lucano.
È di questo stesso periodo la prima attenzione professionale, prestata da Arcangelo Moles alla fotografia: in particolare attraverso un reportage fotografico realizzato sui luoghi del “cratere” del terremoto del 23 novembre del 1980, che colpì l’Irpinia e la Basilicata, provocando molte vittime. Egli si recò tra Balvano e Ricigliano per fermare, attraverso lo scatto fotografico, i luoghi della tragedia umana vissuta e i danni subiti dal patrimonio storico, artistico, architettonico e monumentale, a causa di quel devastante fenomeno tellurico, che fece 2 mila 914 morti, 8 mila 848 feriti e 280 mila sfollati. Per certi aspetti si è trattato, da parte sua, di una sorta d’inconsapevole iniziazione a quello che sarebbe stato, poi, per trentacinque anni, il suo lavoro di assistente tecnico/scientifico, presso la Soprintendenza Archeologica di Basilicata. In questa veste di dipendente del Ministero dei Beni Culturali, Arcangelo Moles ha progettato e allestito, in tre musei della Basilicata, oltre trenta scenografie: alcune delle quali di genere multimediale e altre di tipo monumentale.
Sempre a livello di progettazione scenografica Arcangelo Moles ha curato, negli anni 90, l’allestimento dello studio televisivo, per la messa in onda della terza edizione del telegiornale Rai di Basilicata: che all’epoca andava in onda da Via della Pineta, a Potenza. A cavallo del Duemila (allorquando ottenne, per i suoi meriti artistici, la cittadinanza onoraria del Comune di Bernalda, in provincia di Matera) e poi a seguire - nei tre lustri successivi - è andata sempre più crescendo la sua esperienza creativa, continuamente divisa tra: l’attività grafica di tipo editoriale (importante segnalare, a questo riguardo, la sua collaborazione con Sineresi, il trimestrale diretto da Anna R. G. Rivelli e edito dall’Associazione PAN – Centro di Produzione Culturale); il disegno (sempre molto essenziale, scarno e asciutto); la pittura (di afflato romantico e di poderosa tensione emotiva ed emozionale) e la manipolazione plastica della creta (svolta in una doppia “chiave semasiologica” di “scandaglio etno/antropologico” e di “rappresentazione demologica” delle cosiddette “culture subalterne”) e poi, anche, attraverso la fotografia (intesa - alla maniera di Ugo Mulas - quale occasione per esplorare e investigare la realtà, senza mai perdere la completa aderenza con il lato estetico e creativo).
Attraverso una serie di mostre personali (una delle quali tenuta al Centro culturale italo-francese, di Muro Lucano) e di rassegne collettive (tra cui alcune esposizioni d’arte sacra, insieme alla sua partecipazione allo spazio Basilicata del “Padiglione Italia” della 54^ Biennale di Venezia, curata da Vittorio Sgarbi) Arcangelo Moles si è sempre presentato come un artista molto attento al controllo dei dettagli di ogni sua opera, molto minuzioso nell’elaborazione dei suoi progetti creativi; dimostrando - in questa maniera - di essere un artista capace di lavorare a tutto tondo e in grado, al tempo stesso, non solo, di distruggere ogni sua incertezza creativa (eliminando ogni sua opera che non riteneva degna) ma, anche, dotato della capacità di spaziare: dalle operazioni di “environment creativo” (ovverosia di “recupero concettuale” dei materiali poveri, ricavati dall’ambiente) fino alla Minimal Art (intesa come possibilità di “amplificazione semantica” del dettaglio, del particolare: ottenuta attraverso un processo di riduzione della forma e del segno).
Abbiamo la certezza che lui (che nella vita si è sempre dimostrato un animo generoso, sempre aperto e disponibile a collaborare con gli artisti, bravi e meno bravi) ha scelto di rifiutare tutte queste definizioni estetiche e stilistiche: forse per modestia da parte sua, o forse perché convinto (per la sua abitudine a badare alla sostanza delle cose e per la sua natura romantica) che a lui sono sempre interessati “gli sconfinamenti linguistici, come pure le integrazioni” al solo scopo “di trovare l’unità nelle differenze”. Tutto questo perché - nel suo progettare continuo - Arcangelo Moles ha sempre cercato i risultati estetici e culturali, piuttosto che la fama. Di tutto questo è testimone, tra gli altri, il curatore di mostre, Cataldo Colella al quale ha confidato il suo desiderio d’inseguire - in maniera incessante - “vari momenti poetici, usando media diversi; fattori plastici che si dilatano e che s’integrano, quali la fotografia, la grafica, oggetti dipinti; la verità e l’installazione”.
E di tutto questo non gli si può, non rendere omaggio.
Copyright © Rino Cardone
Commenti 0
Inserisci commento