Erano gli anni ’80 del Novecento: anni in cui imperversava, nel mondo, l’edonismo reaganiano. Un termine questo che era sinonimo - in economia - di neoliberismo sfrenato. Il mercato era retto dalla dura legge monetaria dell’homo homini lupus: ovvero da un tipo di attività imprenditoriale che bene si attaglia alla frase del filosofo inglese, Thomas Hobbes: l'uomo è un lupo per l'uomo. Un sistema d’impresa, dunque, svolto senza nessuna esclusione di colpi. A quel tempo, tutto poteva dirsi lecito, al fine di raggiungere il proprio, esclusivo, benessere e interesse personale. In queste particolari circostanze, crebbe la metodica collettiva della competizione e della concorrenza. E iniziò a regredire, al contrario, lo spazio assegnato alla solidarietà e al sostegno sociale. Tra le dottrine politico-economiche che dominavano in quel periodo storico, c’era la Scuola di Chicago: che spingeva alla libera iniziativa e al libero mercato, riducendo l’intervento dello Stato nella società, ma non diminuendo, però, la produzione dei beni e dei servizi, che dal pubblico iniziarono a essere trasferiti, lentamente, al privato.
Si può dire che è negli anni ’80 che si sono gettati i semi di molte scelte economiche e politiche, nazionali e internazionali, successive all’ingresso dell’umanità nel terzo Millennio: con l’introduzione dell’euro e con l’accentuazione del divario esistente tra nord e sud del mondo. E con l’esasperazione degli integralismi governativi e delle ortodossie confessionali. A guardare all’Italia basti pensare a quanto sta accadendo negli ultimi anni, con le decisioni che sono state assunte dal Governo nazionale a livello: di riforma del lavoro, di riduzione della spesa pubblica e di smantellamento di una vecchia idea – seppur qualificata - di welfare e, quindi, di una concezione dello “stato sociale” tesa a garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini distribuendo, il più possibile equamente, l’accumulazione dei redditi (il capitale e il plusvalore) che sono generati dalle forze del mercato.
In quegli stessi anni ’80 dell’edonismo reaganiano (in un periodo che c’è chi ha indicato come “momento di riflusso”) nel mondo dell’arte, si sono percorse nuove strade creative, nuove esperienze culturali e nuove avanguardie artistiche: che cavalcarono l’onda - come afferma il critico d’arte, Marco Meneguzzo - “del processo di smaterializzazione delle cose”, “della rivoluzione informatica” e della “informazione che ha vinto sulla produzione”. Questo ha comportato, nel sociale, un’omologazione di tutto ciò che si poteva ricondurre alla pura libertà di espressione, comportando condizionamenti determinati, in molti casi, dal sopravanzare della tecnica. Ma non è stato così nel mondo dell’arte, dove è esploso, invece, un genere di “immaginismo stilistico” che dalla “paura della bomba” (del pensiero di Giulio Carlo Argan) si è modificato in un concetto di “arte, fuori dalla morte dell’arte”. Cosicché il pensiero di Hegel (che teorizzò, per primo, la fine dell’arte, per effetto delle tecnologie e del sopravanzare della filosofia) è stato soppiantato dalle teorie di Hans Georg Gadamer che - nella sua qualità di esponente dell'ermeneutica filosofica – rintracciava nell’amore della sapienza, lo strumento di dialogo tra tutte le forme d’arte, per la creazione e lo sviluppo, successivo, del talento umano.
E tra i gruppi e i movimenti artistici, nati in quel periodo, ce ne fu uno, in particolare, che si aggregò intorno al quartiere San Lorenzo, di Roma. E intorno ad un preciso spazio fisico - artistico e culturale - in Via degli Ausoni, al quartiere San Lorenzo. Si tratta dell’ex Pastificio Cerere: che fu preso come spazio di aggregazione e proposta, di artisti come Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio, Pizzi Cannella e Marco Tirelli. Erano artisti, tutti questi, che in gran parte provenivano dalle Accademia di Belle Arti italiane, in particolare da quella di Roma, pure frequentata, alla fine degli anni ’70, dall’artista Gerardo Cosenza: che con molti di questi artisti scambiò (in quel periodo storico che segnò, tra l’altro, il culmine, e la fine, del terrorismo in Italia, a partire dalla morte di Aldo Moro) un vissuto di: conoscenza, simpatia, affetto, amicizia, frequentazione ed esperienza artistica e culturale vissuta, tra di loro, insieme. Un tratto comune della produzione pittorica di questi “geni creativi” (che si contrapponevano, con il loro lavoro, al “minimalismo” e al “concettualismo”, che imperarono, nell’arte, negli anni ’60/’70 del Novecento) fu l’attenzione - da loro stessi mostrata - alla “seduzione” della forma e all’”idillio” da loro mostrato verso il colore. La loro produzione artistica si sviluppava - nella maggior parte dei casi - su quadri di grande formato: nei quali erano posti al centro del “punto aureo” dell’opera, la figura umana e le abilità tecniche di pittura.
Per questa ragione, si parlò di “ritorno alla pittura/pittura” con elementi assai originali, autentici e innovativi, che assunsero in questi giovani “creativi culturali” (che operavano in quegli anni, in Italia e nel mondo) un carattere volitivo, antropocentrico e neoumanistico. Tutto questo, con l’aggiunta, per di più, di una sorta di “compiacimento emozionale” che scaturiva dall’attenzione da loro mostrata verso: il dettaglio espressivo, il contorno astratto, il profilo della figura e la silhouette, oltre che da una cagionata esplosione di ogni singolo colore e di più colori, disposti tra di loro, insieme, sulla tela. E avendo, altresì, come “forze psicologiche” che agevolavano questo loro tipo di “approccio immaginifico” alla pittura: il sentimento e l’emozione. A fronte di queste precise condizioni (e cioè: cuore e sensi; anima e materia; energia e vigore) questi artisti (compreso il lucano Gerardo Cosenza) realizzarono una vera e propria esaltazione della “dimensione espressiva” e della “carica emozionale”: elementi, ambedue, che erano connaturati alle loro scelte estetiche, armoniche, stilistiche e formali, effettuate in quegli anni.
Vero è (lo dimostrano, del resto, le opere di Gerardo Cosenza, di cui siamo, oggi, in possesso) che espressione ed emozione, hanno rappresentato, per quest’artista, due elementi assai importanti della sua produzione pittorica degli anni ’80. In quel periodo l’artista potentino è stato ampiamente storicizzato attraverso delle importanti manifestazioni, come la XI^ Quadriennale di Roma e il Premio Michetti di Francavilla al Mare. Di quell’epoca ci restano due importanti cicli pittorici: il “Giardino dell’erba voglio” e l’”Era dei tappeti volanti”. Si tratta di due periodi storici della pittura di Gerardo Cosenza, di cui dispone, oggi, un’ampia collezione, insieme con la famiglia, anche il collezionista torinese Calogero Logiudice: che in quegli anni acquistò un centinaio di opere di quest’artista, alcune delle quali sono tornate nella piena disponibilità del mercato. Si tratta di due interessanti epoche pittoriche, in cui l’artista espresse la piena esaltazione di una “tensione eudemonista”: finalizzata al perseguimento assoluto della bellezza, intesa come “bene collettivo” da esercitare, sia attraverso il “calcolo” dei sentimenti e della ragione, e sia mediante l’esercizio, del tutto personale, della propria felicità. Il filosofo, Nicola Abbagnano si sarebbe spinto a indicare in queste esperienze artistiche di Gerardo Cosenza di quegli anni: l’elemento motore del suo “produrre immaginifico” ma anche il “principio” e il “fondamento della propria vita morale”.
Della produzione creativa dei già citati artisti degli anni ’80 (molti dei quali sarebbero divenuti maestri dell’arte contemporanea, venendo associati al fenomeno artistico della “Postavanguardia”) colpisce - in particolare - la loro “originalità semantica” e la loro “proposta creativa”. E non solo. Bisogna, altresì, riconoscere che in questi lavori sono presenti altri tratti comuni, da parte di questi artisti che scelsero - in quegli anni ’80 - di fare di Roma la loro patria elettiva. Le qualità cui ci riferiamo sono: l’immediatezza del “tratteggio ornato” (con figure di grande impatto espressivo) e il vigore derivato dalla “carica emozionale” (che ciascuno di loro metteva nella realizzazione dell’opera). Aggiungiamo - che a differenza dei suoi colleghi - Gerardo Cosenza scelse la città di Potenza come “laboratorio globale” del suo “fare creativo”.
Ciascuna delle caratteristiche e delle qualità, finora espresse, fanno di questa pattuglia di artisti degli anni ’80 (li ricordiamo: Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio, Pizzi Cannella e Marco Tirelli) una manifestazione evidente del loro stesso “portento creativo”. Un aspetto, questo, sul quale non potrà mai cadere, in ogni caso, l’oblio dei tempi: neanche dopo la loro morte che invece è giunta - in maniera prematura - per Gerardo Cosenza. Da allora, dal suo trapasso, sono trascorsi dieci anni. Un intero decennio, in cui l’immagine, umana e professionale, di quest’artista, non è stata scalfita di un benché minimo dettaglio. E l’immagine, complessiva, che conserviamo di quest’artista, è un’immagine di grande qualità: se consideriamo, tra l’altro, che permangono - nella memoria collettiva - ricordi di un artista che in Italia, come in Europa e oltre oceano (a New York e a Denver) seppe farsi apprezzare per la qualità del suo lavoro. Tutto questo sarà sancito con la retrospettiva delle sue opere, che si farà nella Capitale: in occasione del decennale del suo trapasso, avvenuto il 7 novembre del 2005. Una mostra, questa, che sarà supportata - sul piano logistico e organizzativo - dalla “Associazione dei Lucani a Roma”: i cui iscritti hanno sposato l’ambizioso progetto espositivo - su base istituzionale – programmato dall’Associazione culturale l'Equipe Laboratorio, di Potenza (diretto da Tina Gioioso) e dallo “Studio d’Arte Gerardo Cosenza” (diretto da Giuliana Cosenza).
Di quest’artista lucano restano, ancora oggi, molte opere: che sono presenti in musei, gallerie, pinacoteche e collezioni, pubbliche e private. Si tratta di raccolte di opere, come quelle di cui dispone, a Potenza, la società Geocart S.p.A. che opera nel settore dell’osservazione della Terra. E che è proprietaria, tra l’altro, di una preziosa scultura dello stesso Gerardo Cosenza: collocata all’ingresso della struttura societaria. Si tratta di un “blocco scultoreo” che nella sua forma ogivale, richiama il frutto della mandorla e, di conseguenza, l’archetipo della “vesica piscis”: che è simbolo di vita che nasce, che matura, che si consuma e che si trasforma.
All’interno, invece, dell’edificio della Geocart S.p.A. sono presenti delle interessanti opere pittoriche dell’artista potentino. Si tratta di dipinti e di disegni, nei quali la “dimensione espressiva” è molto intensa. Sono opere che calcano una progettualità che rimanda alla “forza della ragione” e alla “potenza dei sensi” che sono due elementi che hanno contrassegnato – non possiamo nasconderlo - tutta la produzione pittorica di Gerardo Cosenza: anche quella più recente, che risale a dieci anni fa, al 2005.
Osservando le opere di Gerardo Cosenza utilizzate per le retrospettive a lui dedicate nel corso del 2015 (con lavori che fanno parte: della proprietà di famiglia, della collezione di Calogero Logiudice e del patrimonio commerciale della società Geocart S.p.A.) torna in mente la filosofia epicurea. E in particolare quel principio attraverso il quale la filosofica greca, ha sviluppato due importanti concetti: quello della “ricerca della gioia” e quello della “conquista della felicità”. Alla base di tutto c’è l’idea che il “piacere personale” si ottiene in “condizione di riposo”. Segue a questo fenomeno la fruizione della Bellezza, intesa come forma di contrasto al dolore. A questi “pensieri filosofici” e a questi “atteggiamenti creativi” (vissuti con l’arte e attraverso l’arte) crediamo che si possa assegnare il nome di: eudemonismo. Una condizione, questa, del tutto differente dall’edonismo: che accorpa, invece, in se il “bene morale” con il “diletto individuale” (inteso, quest’ultimo, il divertimento, come fine ultimo di tutte le cose).
L’eudemonismo che vogliamo porre in evidenza (attraverso quest’attività espositiva, organizzata in memoria di Gerardo Cosenza) appartiene: al ricordo e alla traccia intellettuale, culturale e creativa, che quest’artista ci ha lasciato, con le sue opere. Sarebbe del tutto errato negare che attraverso l’arte non sopravvive, nel tempo, la memoria dell’artista. No. Non è così. Le opere d’arte rimangono vive per sempre, insieme al ricordo dell’artista che le ha prodotte: in una sorta dimensione fuori dal tempo, eterna, perpetua, perenne e immortale.
E ad accomunare tutti questi lavori è una modalità estetica molto precisa, che potremmo definire: di “bellezza in continuo fluire” o d’“incanto in permanente mutamento”. E il termine più corretto da adottare, in questo caso, è talaxemando: che è una locuzione che deriva dal greco antico e che rintraccia nell’assenza completa del desiderio, il raggiungimento assoluto della felicità. E qui torna in mente, di nuovo, Epicuro: il quale affermava che “non desiderare nulla, porta all’appagamento”. E cioè a una condizione del corpo, che solo se liberato dalle cose mondane, può raggiungere lo stato dell’assoluto piacere.
È questo il caso dell’uomo e dell’artista Gerardo Cosenza, che sopravvive oltre che nel ricordo personale dei suoi collezionisti, dei suoi colleghi, dei suoi estimatori, dei suoi amici e delle persone a lui care, anche nella memoria collettiva della storia perché (come diceva il pianista e direttore d'orchestra, Daniel Barenboim) “ogni grande opera d’arte ha due facce, una per il proprio tempo e una per il futuro, per l’eternità”. E i dipinti, le sculture, i disegni, i multipli e le fotografie di Gerardo Cosenza, sono una testimonianza concreta di tutto questo.
- Copyright © Rino Cardone –
Le foto delle opere di Gerardo Cosenza, contenute in questo profilo di Premio celeste, fanno parte della Collezione Calogero Logiudice, attualmente esposte c/o "Lo Studio d'Arte Gerardo Cosenza", Vico Luigi La Vista 9, Potenza.
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