Nasce il 2 febbraio 1950 a Gavirate in provincia di Varese. La sua formazione avviene, dapprima, alla scuola di pittura del Castello Sforzesco e poi all’Accademia di Brera che abbandona nel 1972.
Nel frattempo, all’età di sedici anni, ha già allestito la sua prima personale alla Galleria Ca’ Vegia di Varese con opere dipinte a spatola in cui erano rappresentati, con un certo sentimentalismo e una pregevole, precoce abilità tecnica, paesaggi, casolari, fiori, alberi, acque stagnanti.
Soggetto quest’ultimo che resterà una costante all’interno del percorso dell’artista, nato sulle rive del lago e dunque intimamente legato a questo genere di paesaggio naturale.
Dopo aver partecipato ad alcune collettive, fra le quali ricordiamo il Premio Nazionale Varese Arte, ordina nel 1970 una seconda personale alla Galleria Ghiggini di Varese con alcuni nudi che ricordano certe dolcezze segniche di un De Pisis o un Bonnard, e con una serie di paesaggi dedicati alla Sicilia. Scrive Gian Franco Maffina in catalogo: ‘Egli ancora con gli occhi pieni di umide tenerezze di questa terra lombarda si sarà trovato certamente attonito di fronte alla violenta bellezza del nostro Sud, alla luce accecante dei suoi muri riarsi da un sole implacabile e dalla salsedine marina, alle sue spiaggie abbacinanti, al suo mare increspato dal caldo vento d’Africa e lo si avverte questo suo turbamento quasi attonito in queste sue borgate costiere dove il silenzio è rotto solo dallo scalpire di un asinello o dal richiamo da nenia orientale del venditore ambulante’. Due anni dopo espone alla Galerie L’Angle aigu di Bruxelles ottenendo un lusinghiero successo di critica sulla stampa belga. Lo presenta Renato Guttuso: ‘Caro Pedretti, benché tu sia molto giovane, il tuo lavoro offre già alcuni elementi sicuri per giudicare delle tue doti non comuni. Non si può non essere colpiti dalla sicurezza con cui il tuo segno, le tue note di colore definiscono un paesaggio, una figura, un intero nei suoi tratti essenziali; del piglio con cui il tuo disegno ha la capacità di penetrare la forma, ad indagarla con precisione, senza cadere nell’analisi minuziosamente accademica. Oggi il tuo lavoro si trova ad un punto assai serio, e mi pare che i tuoi dipinti recenti contengano elementi nuovi rispetto alla felicità e facilità delle tue precedenti pitture. C’è la coscienza di un impegno nuovo e di nuove difficoltà. E’ la premessa di un balzo in avanti’.
A questo punto, dopo una mostra alla Galleria Ghiggini di carattere riassuntivo, inizia per l’artista una pausa riflessione, un periodo di ripensamento durante il quale si ritira dall’attività pubblica per una silenziosa e pensosa opera di ricerca, rivede le esperienze artistiche finora vissute e le rimette in discussione.
I primi risultati di questa appartata fase di sperimentazione sono una serie di paesaggi immaginari composti solo di onde marine e di vaganti nubi e fissati in atmosfere sospese percorse di vivida luce. E’ il gesto, alla maniera di Pollock, ad assumere importanza in queste opere della seconda metà degli anni ’70, un gesto ampio e disteso che consente alla materia pittorica di espandersi e corrugarsi, di brillare in vividi colori e di disegnare trame allusive. Dipinge queste immagini ‘informali’ su fogli di pvc o di plexiglass e le rinchiude all’interno degli stessi stratificando i materiali ed utilizzando anche delle resine. Viana Conti nella presentazione della mostra Ceneri a reazione, tenutasi nel 1982 al Luogo di Gauss di Milano, vede in queste scelte un punto di avvio: ‘Il pittore, dopo essersi scatenato nelle grandi dimensioni e dopo aver dimostrato di poter invadere il mondo, ritesse uno spazio di gioco e di analisi e ricomincia a parlare dietro un velo. La soglia al di là della quale ripete i suoi gesti pittorici è quella della trasparenza di una lastra di plexiglass. Ma quella lastra è lì per creare una distanza, per funzionare ancora come una finestra, un punto focale dello sguardo. La libertà dell’artista, nelle sue opere recenti, non è cercata nell’estensione massima delle braccia, nell’urlo a voce spiegata, ma in una successione di piccoli gesti e di modulazioni della voce. Quel pensiero del limite che prima diventava angosciante, ridiventa per questo artista praticabile, quando addirittura non è una condizione per dare continuità al discorso arte. L’idea di frammento, liberandosi di una connotazione rovinosa ricrea una condizione di partenza per la costruzione non più del monumento del passato, ma di un documento presente.
Nel lavoro di Pedretti è recuperabile un ricordo di matrice informale, che nel tempo si è svuotato di significati e di valori, trovando nella frequentazione della materia’ e dei colori… pulsioni magiche e ludiche’.
Per Marco Meneguzzo, invece, con queste opere l’artista si pone sul confine oltre il quale la pittura invade altri territori: ‘E’ indubbio che la pittura di Pedretti sia pittura di paesaggio – e quanto egli debba a certo naturalismo lombardo non viene certo nascosto-; il fatto oggi sorprendente è piuttosto che questo paesaggio vuol essere paesaggio di natura e non, ancora una volta, paesaggio d’arte. Non è dunque la sua operazione ‘manieristica’ per quanto oggi si possa sfuggire al manierismo -che mutua la propria ragion d’essere soltanto dall’arte. Posizione rischiosa da sostenere, ma audace e, paradossalmente, nuova: come se una positiva fiducia in se stessi e nei mezzi della pittura potesse aver la forza eversiva di ribaltare tendenze e direzioni, che mostrano sì qualche sintomo di stanchezza, ma che tuttora sembrano senza alternativa. Non l’attraversamento delle immagini e della storia dell’arte, non l’analisi e il tormento degli strumenti ultimi della pittura, ma un referente antico e nuovo al contempo, un tentativo di rivitalizzare e di riannodare i fili forse non totalmente recisi con certa tradizione, specialmente d’impianto romantico. Le trasparenze che Pedretti raggiunge attraverso ripetute colate di resina e di pittura sono trasparenze che possono ricordare persino i cieli tiepoleschi, ma anche un cielo lombardo ‘così bello quando è bello’. Un’altro naturalismo? La questione è vecchia come la pittura…’ (presentazione al catalogo della mostra personale al Luogo di Gauss, Milano, 1983).
Ed in effetti la questione del naturalismo in Pedretti è centrale come dimostrano i suoi esiti ulteriori.
Difatti, abbandonate, a partire dalla metà degli anni ’80, le velleità delle avanguardie contemporanee, ritorna in una certa misura a quel senso della natura delle origini, a liriche evocazioni paesistiche, memori però della gestualità informale e soprattutto della lezione di tre grandi maestri del genere:
Constable, Segantini e Morlotti. Dei primi due ritroviamo nelle immagini di Pedretti il sapiente uso delle scansioni cromatiche e la grande capacità di strutturare l’insieme per giochi chiaroscurali; del terzo, appare evidente il rapporto -diremmo- terragno con la materia, la quale sempre tende più a solidificarsi e ad acquistare spessore. Indubbiamente queste sono solo referenze culturali, le solide basi su cui poggiano le costruzioni pittoriche di Pedretti il quale si affida a sensazioni visive, ma soprattutto ricrea in studio sul filo della memoria visioni che già sono depositate nel suo immaginario fin dall’infanzia, che affiorano e si accumulano ad ogni esperienza. E, se dapprima rendeva delle ampie panoramiche dei paesaggi lacustri, delle erbe di palude e dei canneti, ora pare immergervisi, in un rito quasi di sapore simbolico, per evidenziare un dettaglio, per isolare un particolare, per mettere a fuoco uno stelo o un fiore o un intero cespuglio.
Commenti 2
Inserisci commento