Non c’è colore da scegliere su una tavolozza, né macchie da sfumare o campiture (di cui poco si avvale il nostro), né prospettive classiche che portino a più piani espressivi in tonalità che richiamano l’atmosfera delle carte ingiallite dal tempo, o meglio, parlano di storia e delle ore che passano seguendo le vicende degli uomini e delle cose.
Un appieno in primo piano e nessun medium da usare. Non ci sono acidature come per l’incisione né colori a olio o acrilici o tecniche miste. Tutto sta nell’intensità di sentirsi parte di un pezzo di legno come la tela per un pittore; di un solido da scalfire per lo scultore; di pietre da graffiare come per l’homo sapiens. Eppure, nell’essere chiamati a una lettura visiva, percepiamo la priorità dell’armonia in una monocromia che resta nei toni del marrone dei legni, nella maternità della natura che li ha creati, dal seppia al nerastro, e dei bruni, degli ocra, finanche dei rossi scuri. E senza accorgercene siamo in dialogo con l’autore nel fluire d’attimi e nel perpetuare un’arte inconfondibile.
La pirografia, infatti, dal greco “scrittura col fuoco”, si può dire che è antica quanto l’uomo, probabilmente è stata una delle prime e rudimentali forme di espressione conosciute. E si suppone che il processo di ardere per disegnare con il fuoco sia stato praticato dagli egizi e da tribù africane, mentre una storia certa colloca la tecnica pirografica nel medioevo.
Ecco, il legno ora sussulta sotto la sapiente mano di Luciano Donini. Vibra quasi, s’apre nelle fibre, diventa supporto vivo che s’immola per l’arte nel divisamento che nasce e rievoca sì la tradizione della tecnica ma riattualizzata nella modernità. Descrizioni che richiedono grande attenzione per disvelarsi. Tanto che il fare arcaico compone e scompone la semplicità della linea in volute attuali senza alienarne la conformità. Così la variegata esternazione del legno che a volte si rifiuta di concedere totalmente il suo spazio e frappone un nodo oppure la durezza di arterie che non si lasciano trapassare.
Bisogna conoscere i legni che si usano quando bisogna consumarli per entrare nella pienezza di una tavola da preparare, e capirne le ragioni fin dal taglio nella misura dell’opera che nascerà, come per i grandi scultori del Rinascimento che in un blocco di marmo già vedevano un David o una Pietà. Così a guardare un acero che consente un buon lavoro nonostante la sua durezza, dal colore chiaro con apporti grigiastri e fibre ravvicinate e talvolta ondulate al tatto; la betulla, altrettanto duro e con difficili venature forti; il pioppo, il più facile per la sua tenerezza e perché ha poche screziature, e buono anche il rendimento cromatico.
Ora al lavoro. Negli odori diversi che ogni legno emana. E sarà un avvicendarsi di forme e contenuti che non potranno essere metamorfosi della materia che sarebbe inerte se prima non sente il cuore dell’artista, le mani che l’accarezzano e che indugiano a carpirne l’afflato, il respiro, come in un alfabeto braille. Come un’eco che giunge da un prosieguo plastico e a volte dagli esiti tridimensionali. Poi il percorso immaginativo dell’artista, e la declinazione di un richiamo convergente, fino a trovare la libertà, per usare le parole di Vasari, pur restando in una “regola” ordinata; ma non basta. C’è, altresì, l’esame che pone nella corrispondenza di là delle mode come scelta all’inintelligibile, e bilancia il riscontro trasversale di una neopirografia che sia movimento di pluralismo come sinergia trasversale per possibilità differenti, nella reinvenzione di contiguità con il pubblico, a riconquistare un legame ormai labile per l’arte, e riformulare l’estro che tuttavia resta tutt’altro che indebolito.
Così, in Donini è semplice l’attitudine di poggiare le sue ragioni su una tesi di riconoscibilità, di essere artista nel modo, spiegava Klimt, di non isolarsi perché “non solamente i creatori, ma anche coloro che godono dell’arte, che sono cioè capaci di rivivere e valutare con i propri sensi ricettivi le creazioni artistiche”. E così facendo il nostro autore rigetta istanze chimeriche manifestando ambienti comuni e soluzioni di un’epoca che puntella a sostenere per rifondarla. Anche se non nasconde l’ammirazione per il fiammingo Bruegel, carico di dettagli e di un movimento a tratti convulso, a tratti appena accennato, di cui condivide la riuscita in diverse opere, oltre all’essere simbolico nel dare plurime letture del quadro. Non solo. Guarda alle visioni surreali di un pittore nordico del Quattrocento qual è Bosch, al senso della composizione e dell’inventiva che riecheggia nelle sue soluzioni pittoriche, soprattutto alle allegorie. Infine, Dürer che pure ha pirografato e dunque conosceva bene questa tecnica, ed è stato uno dei primi a differenziarla dalle pratiche artigianali cui era relegata. Perché l’importanza di una proposta artistica non dipende dagli strumenti, dai materiali, dai supporti usati, ma dalla padronanza dell’arte.
Andrea Barretta
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