Lei scrive che non ha certezze ma molti dubbi e parte all’attacco chiedendo cosa si prova davanti alla “Pietà” di Michelangelo e a quella di Fabre, anzi precisa addirittura che se si dovesse ritenere Duchamp un furbetto del quartiere e Beuys l’esempio che tutti possono fare arte, allora invita a non leggere il suo libro.
"Credo che in questo momento nessuno possa dire cos’è arte e cosa non lo è, e tra le pagine del mio saggio ci sono solo alcune indicazioni per formare un’opinione, per aprire un dibattito, ma si evince anche un mio convincimento, una constatazione più che altro, cioè il non accettare l’alterazione e rimandare al mittente le opere di coloro che stenografano idee altrui, né rinnovatori né pionieri ma epigoni: immagine che vuole convincerci di una metamorfosi dovuta, mentre è solo espressione mercantile della società che sembra non riconoscere più l’arte e la bellezza, ma il contrario. Ceto, non occorre recuperare la visione primigenia, ma è bene tenerla presente, per riconoscere interpretazioni ornamentali senza vita. Ma chi può affermare che oggi l’arte non ha niente da dire? Chi giustifica, e perché, l’estetica lasciata al vento che soffia arte come contrario della bellezza? E se la contemporaneità sembra dirci che tutto può diventare arte, com’è possibile che niente effettivamente lo sia?".
Lei, dunque, si mostra caustico verso l’arte contemporanea, e va per binomi, come etica ed estetica, immanente e trascendente, indecisione e scelta, arte e affari, tradizione e novità, arte e filosofia, e soprattutto arte e non arte.
"Sì, la mia analisi sta nell’indicare un’arte che ha creato un sistema dove non è più elemento centrale, in una generazione che è distolta dal suo contesto ideale, e con questo cerco di capire perché l’Italia, il paese della bellezza, abbia tradito un’eredità che ha reso la società nichilista sul piano formale, in una rincorsa esistenziale contaminata dal soggettivismo dove si convive con la bruttezza in un disinteresse collettivo".
Nel dirci senza stupore, lei parla di un’arte contemporanea “spettacolare”, proprio per questo esagerata, e la definisce “un male necessario”. Necessario a cosa?
"Innanzitutto, necessaria all’arte stessa, perché quanto vediamo in manufatti e artefatti si può riscontrare soltanto il grottesco. Ci vuole ben altro per accedere alla sua essenza, per raccontarla e per rintracciarne la capacità di evocare la bellezza quale frammento in cui l’improbabile diventa plausibile. Per ghermirla in un santuario dell’incontro che trascende, e per assimilarne la forma intellettuale, fuoco che divora in una preghiera intesa come chiarore nell’infinito immortale, nell’opera d’arte che, spiegava Umberto Saba, 'è sempre una confessione'. Un modo nell’immaginare l’arte come continuazione della creazione tra terra e cielo, nell’arcano che sempre si rinnova nelle grandi testimonianze che resistono al tempo in una sorta di metafisico atteggiamento di serenità imperturbabile. Lo ricorda il filosofo tedesco, Ernst Jünger, nel dire di un’opera che è perfetta quando 'nulla vorremmo aggiungere, ma anche quella cui nulla vorremmo togliere', e 'se tale è la sua natura, essa si sottrae all’avvicendarsi dei tempi e ai loro criteri di valutazione; è bella per sempre'. Ma quest’arte non ha futuro ed ecco quindi che si presenta come un 'male' da cui risorgere, per ripartire dall’arte come estremo strumento di resistenza".
Lei scrive che se non c’è la consapevolezza, la competenza di produrre arte, cercarne le ragioni sembrerebbe pleonastico, allora perché dedica pagine a un’etica per l’arte e circoscrive un’estetica del brutto?
"Il perché di questi accenni sta nella formula che oggi impera ed è ancora e sempre la stessa, nella pseudo prova della capacità degli artisti di interagire con l’ambiente circostante, in una indagine già compiuta, che sbatte contro l’assurdo da decifrare e contro l’opportunismo del mercato che cerca nell’arte qualcosa che non c’è, in ragioni che già Sol LeWitt riconosceva, cioè come dire che le idee possono essere opere d’arte. Ma se oggi queste 'idee' non ci sono, cosa fare? E’ questo il problema. Nelle pagine che lei cita io non vado tra 'arte si arte no', né tra 'bellezza si bellezza no' nel senso di 'bello e brutto' (allora dovremmo chiederci perché Burri dipingeva con la fiamma ossidrica), ma vado a entrare in dialogo con il lettore per una 'bellezza' da riavere, quella che sgorga dal nostro sentire la voce di un valore alto che non è pari a un prezzo. E nel deporre l’inganno di certa 'arte', la disputa è su interpretazione e linguaggio, su come andremo a leggere chi produce il già visto, in altre parole, per noi fruitori, quella particolare sensazione che richiama alla mente cose già vissute, già sperimentate. Cioè, troviamo i cosiddetti 'nipoti', quelli che già Pablo Picasso biasimava, affermando di non conoscere 'nessuno che dipinge nella propria maniera' perché 'tutti dipingono' alla maniera di …”.
Mi pare di capire che quanto lei chiama “cannibalismo dell’arte” sia in una sorta di “mimesi” che assedia la nostra esistenza?
"Sì, che lega, contrassegna e designa l’artefatto come oggetto estetico che in sé e per sé non dà alcun coinvolgimento emotivo, giacché l’arte contemporanea si è isolata nel farsi celebrare dal 'mercato' come 'sublime' e perciò interessa ai soliti pochi eletti che fanno parte del giro, che la coprono di parole per giustificarla. Mentre per una parvenza artistica bisognerà applicare altra denominazione, sempre che qualcuno non venga a spiegare un 'altro' tratto distintivo di arte, sempre che qualcuno non dica perché un manufatto solo perché esposto in una galleria o in un museo sia per questo un’opera d’arte".
Lei si appella al bisogno della bellezza per l’umanità, per non cadere nella disperazione, e afferma che siamo parte di quel che accade se non riusciamo a metabolizzare un cambio di mentalità.
"Vero. C’è la malavoglia ad ammettere che l’arte sia avara di cultura, in contrasto con i mercanti d’arte e per tutto ciò che ovviamente rientra nella loro sfera di scuderia, in una resa esplosiva tra arte e affari. Poi, alcuni dicono che un punto di fuga sia ormai impraticabile e che l’arte esprime l’inquietudine, e altri ancora che una realtà malata corrisponde a un’arte malata. Non sono d’accordo e lo dimostro. Siamo noi a dover dire di no alle lordure che sovrastano in ogni dove, nelle strade, nelle piazze, nei giardini, in alcune mostre, e allontanare il lezzo dell’ignavia".
Ma come rintracciare o dove scorgere la bellezza nell’arte?
"Joice esortava a 'cercare adagio, umilmente, … di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch’essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un’immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere' e affermava che 'questo è l’arte'. E’ l’arte che 'ha bisogno o di solitudine o di miseria, o di passione', come 'un fiore di roccia che richiede il vento aspro e il terreno rude', precisava Dumas padre, ed è questo il bello di prim’ordine. Cerchiamo, insomma, di far sì che nessuno ci dica cos’è l’arte, e a cosa serve, perché lo sappiamo già: è quella che già risiede dentro di noi. E’ questo discernere che dovrebbe dare l’esempio di perfezione che si manifesta nel brivido che si prova davanti al 'capolavoro', alla vera opera d’arte che è, diceva Hegel, essenzialmente una domanda, un’apostrofe, rivolta a un cuore che vi risponde, un appello indirizzato all’animo e allo spirito”.
Attraverso dichiarazioni ferme e puntualizzazioni necessarie questo libro è dominato dalla visione critica verso il destino dell’artista, né trasgressore né provocatore, e nello svelare la mistificazione lei argomenta la smitizzazione dell’arte in effetti caleidoscopici, caravanserraglio in cui tutto è possibile.
"Sì, non riesco ad accettare la vecchia trasgressione spacciata per novità, né le tante “provocazioni” che ormai non provocano altro che disgusto e neanche le tante cosiddette opere d’arte 'scenografiche' che producono un’anti-arte. Ancora meno con chi tratta cristi e madonne come feticci, con quegli 'analfabeti' d’arte che si dicono artisti e usano il 'sacro' da parassiti, da 'pittori maledetti' credendo di scandalizzare nel contributo dissacratorio che invece prova la loro stessa agonia estetica".
Per questo scrive che l’arretrare dell’arte, quella vera, quella insita nel valore di vivere nella bellezza, non dà l’aiuto necessario a sopportare il peso di una contemporaneità che paga il pegno all’innovazione con la depressione?
"Se non ci diamo una scossa, saremo tutti untori nel preferire la tranquillità del non vedo, non sento, non parlo … nel lasciare che l’arte (e non solo!) sia tutt’altra cosa, non il riconoscere la bellezza ma la proiezione come 'merce', in acquisti nei luoghi simbolo del consumismo, dove alcuni artisti predicano bene ma razzolano male in sermoni social popolari contro tutto e il contrario di tutto e che arrivano anche al padreterno, mentre le loro opere non hanno certo prezzi abbordabili. Non ribelli, ma proletari sorretti dal 'lusso', nell’ipocrisia di proclamarsi fustigatori degli squilibri sociali, coperti dal 'sistema' nel far pensare che è inevitabile e normale, perfino accettabile questa pseudo arte. Ma non è così. Per questo più che caustico sono sarcastico nei confronti di chi disonora la bellezza e, sostanzialmente, li compatisco, perché se l’arte è l’epifania dell’irrazionale loro, purtroppo, non ci arriveranno mai".
Intervista a cura di Gianni Eralio
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