Allestimento di Riccardo Prevosti
La mostra è un pretesto per discutere, attraverso l’arte, della scorpacciata planetaria dell’Expo italiana sul tema: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, nell’oltraggio alla fame nel mondo di rassegne promosse con una logica manageriale al solo scopo di lucro in perfetta sintonia con l’attuale decadentismo. Andiamo, allora, per una simbologia che aiuta a concettualizzare la curatela data all’esposizione con opere sul soggetto “frutta”, segno di riconoscimento dell’intento a significare, nel detto “Siamo alla frutta”, la fine ingloriosa dell’arte soggetta al mercato e rappresentato in questa occasione da molte delle mostre commerciali sul cibo.
Lungo il percorso, nelle sale della Galleria ab/arte di Brescia c’è la possibilità di una molteplicità di riflessioni etiche per concretare l’idea di cambiare i modi di proposte concettuali autoreferenziali e ci sono modalità diverse di interazione che proprio l’arte dovrebbe dare, spostando l’attenzione sui bisogni profondi dell’individuo coinvolto da mostre senza alcun rigore scientifico o da proposte concettuali di una non arte. Un menù, quello che ha prodotto l’Expo, sicuramente indiscutibile per il suo valore intrinseco e indiscusso di mercato delle eccellenze come la sua storia indica. Certo però, in questa edizione milanese è stato scelto un tema difficile da attuare e da gestire nel rischio di spettacolarizzare la ricchezza a danno della povertà, e pur sapendo - facilmente prevedibile - che non si sarebbero potute affrontare adeguatamente le incongruenze che scuotono le certezze di un sistema rovinoso, oltre che ingiusto e corrotto.
Insomma, il tentativo di “Siamo alla frutta” è quello di optare per quel senso primario dell’arte che risiede nell’essere parte della società fino a denunciarne i mali e non a colludersi con essi, rifuggendo da un contatto pubblico-privato che ammorba gran parte dell’attuale panorama artistico.
La cultura e l’arte non sono più motivo di aggregazione ma di disgregazione nel non dare significato e ruolo a competenze che evidenzino il rispetto del principio di credibilità come tramite all’impegno sociale e civico; come punto di riferimento per combattere le ingiustizie e le sofferenze, anche indipendentemente dal concetto di politicamente corretto. Ed è un’opera di Franco Ferlenga, una famiglia scheletrita, ad aprire la mostra “Siamo alla frutta”, a trasmettere una carica emotiva su cui meditare. L’arte non come cibo (v. nota a margine) va da Renato Guttuso a Vanni Viviani e Michele Cascella, con opere uniche da Pippo Oriani a Piero Galanti e poi Italo Bigatti, Guglielmo Cirillo, Alessandro Giozza, Leonardo Lucchetti, e alcuni pittori del XX secolo da collezioni private.
Tralasciando dunque le polemiche e lasciando da parte una riflessione globale sull’Expo che esaudisce egregiamente il compito di affari da concludere … (e nulla da dire proprio perché questo è il compito per cui è nata), la nostra analisi si sofferma unicamente sulla scelta del tema in rapporto alla collettività e all’arte che non ne riconosce i contrasti, per allontanarsi ed esserne partecipe o, per meglio dire, per adeguarsi.
Interessi coltivati - vox populi - non per proporre cultura ma mostre raffazzonate nel binomio arte e cucina, tra cibo nell’arte o l’arte e il gusto per palati sopraffini, in relazioni di linguaggi visuali e plastici tra sapori da immaginare che non ci hanno risparmiato neanche tinelli o mense, giochi visuali e sensistici, nell’imbandire altari al consumismo. Infatti, non c’è stato paese o città che non si sia lasciata sfuggire l’opportunità di organizzare mostre d’arte, incontri e convegni tra il didattico e l’empirico, con piramidi alimentari e contributi pubblici spesi tra un brindisi e l’altro, con fiumi di scolaresche a incrementare le visite senza dire che la malnutrizione è concausa di oltre tre milioni di morti infantili. (Andrea Barretta)
Anche per il rispetto di questi dati il curatore Andrea Barretta ha inteso proporre
non una mostra sulla rappresentazione del cibo ma sull’incanto della natura come arte e bellezza per quanti non hanno nulla da mostrare se non la povertà.
La natura morta nell’arte, infatti, non è nata come proposizione di vari cibi ma solo per definire motivi decorativi e solo in seguito assurgere ad altri valori. Così, di provenienza fiamminga, nel Cinquecento non era ancora apprezzata né dagli artisti italiani né dai collezionisti e dalla nobiltà che determinavano la produzione dell’epoca fatta di figure e di rappresentazioni sacre. Fu Michelangelo Merisi da Caravaggio, a dare una svolta a questo genere, caratterizzandolo con la perfezione dell’iperreale durante la sua permanenza a bottega, nel 1593, da Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, il più conosciuto pittore di Roma, amico di papa Clemente VIII. Questi, infatti, relegò Caravaggio a dipingere fiori e frutti, proprio perché soggetti considerati di minore importanza e di secondo piano nei quadri dove c’erano ben altri dettagli da sottolineare, come per i merletti, le vesti, i gioielli, i panneggi, e così di seguito. Se, però, in area lombarda la raffigurazione di soggetti inanimati iniziava già da alcuni anni ad avere una discreta fortuna associata a una pittura dai significati simbolici o allegorici, sarà ancora Caravaggio a dare a questo genere una dignità prestandovi una minuziosa ricerca di particolari attraverso l’uso della luce che - novità per il tempo - faceva penetrare sulle tele dall’esterno delle scene, come nel “Fanciullo con canestro di frutta”.
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