Emblema e i protagonisti dell’informale italiano
Mostre, Brescia, 20 June 2015
Da un omaggio a Salvatore Emblema si snoda la mostra retrospettiva attraverso il gesto, il segno e la materia con i protagonisti e gli interpreti dell’informale in Italia: Carla Accardi, Enrico Baj, Giuseppe Capogrossi, Pietro Consagra, Antonio Corpora, Gianni Dova, Pompilio Mandelli, Ennio Morlotti, Giuseppe Santomaso, Emilio Scanavino, Emilio Vedova, Cesare Zavattini. L’opportunità è quella di un dialogo nel confronto tra un’esperienza artistica del secondo dopoguerra e il dibattito attuale che coinvolge la contemporaneità consapevole della crisi del “quadro” nella cultura che cerca di riannodare la continuità.

A cura di Andrea Barretta con un allestimento di Riccardo Prevosti

Figura artistica di grande originalità per il suo tempo, capace di coniugare l’osmosi tra spazialismo e informale, tra astratto ed espressionismo, Salvatore Emblema (1929 - 2006) già nel 1948 pensava alla tela non come superficie ma volume, quando eseguiva collage usando foglie disseccate o seguiva le ricerche materiche con l’impiego di pietre e minerali raccolti alle falde del Vesuvio. L’artista napoletano, nato a Terzigno, conosciuto per le sue opere realizzate su tela di sacco che gli decretano il successo negli anni Sessanta, con frequentazioni romane in ambienti artistici e letterari, da Carlo Levi a Ugo Moretti, tiene la prima personale proprio a Roma nel 1956, ed entra nel mondo del cinema, collaborando con Fellini, e della moda disegnando tessuti per lo stilista Schubert. Poi approda negli Stati Uniti grazie al miliardario Rockefeller per quanto gli aveva acquistato nel 1965 in una galleria d’arte, e qui entra in contatto con Mark Rothko che lo influenzerà nell’approfondire le trasparenze, e con Jackson Pollock del quale terrà conto del gesto creativo libero. Oltreoceano, altresì, incrocia i maggiori esponenti delle correnti artistiche dell’epoca, ovvero gli espressionisti astratti, e conosce il critico d’arte Giulio Carlo Argan che apprezza la sua arte e resterà per sempre al suo fianco tanto da determinarne la scelta artistica futura di “detessere”la tela di juta al fine di esaudire l’idea di “far vivere lo spazio dietro la tela”, giacché gli aveva raccontato dell’esperienza spazialista di Lucio Fontana, ma anche per il vivere in prima persona la sperimentazione di Burri e Castellani.

Tornato definitivamente in Italia, dopo altri viaggi e altre presenze in Francia e in Inghilterra, esporrà alla Biennale di Venezia, agli Uffizi di Firenze, al Palazzo Reale di Napoli, e sue opere sono alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, al Boijmans Museum di Rotterdam, nella Collezione Agnelli di Torino, nei Musei Vaticani. Si terrà, però, distante e affrancato da ogni schema o gruppo o movimento del Novecento affermando uno stile che connoterà la sua identità artistica riconosciuta dal Metropolitan Museum di New York che gli allestisce una grande mostra nel 1982 e acquisirà cinque sue opere.

Pertanto, nel 1972, Emblema rifiuta, per una scelta di libertà creativa, la cattedra di pittura offerta presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, e coerente a un percorso individuale di azione e di pensiero, consolida la fama a livello mondiale per una ricerca originale e senza eguali nel superamento del vincolo della superficie e nell’aderire alla pura visibilità attraverso la sola “intenzione di dipingere qualcosa”.
Coeso alle ragioni spaziali, di cui la sottrazione di fili all’ordito dei sacchi di juta - usati come tele - consentiva di avere una prospettiva di attraversamento capace di rivelare un “oltre” che determinerà la sua forte personalità artistica ed esistenziale, sicuramente ancora non del tutto sviscerata nel passaggio critico che riteniamo debba essere anche intellettuale proprio per quelle consistenze temporali introducibili nel fruire della storia di una pittura fatta di materia, di varchi dal tratto ancora difficilmente classificabile nell’indirizzo complessivo di una linea inizialmente espressionista e poi astratto informale.

Intuizioni che si sostanziano nella memoria prima che nei sensi e prendono corpo nel colore denso al centro della composizione, a ricomporre dopo aver decostruito l’idea iniziale di natura rivelatrice di una sensibilità materica condivisibile con Antoni Tapiès e Robert Rauschenberg, e anticipatrice per certi versi dell’Arte Povera. Non solo. Salvatore Emblema, dopo aver vissuto le avanguardie internazionali, interpreta l’informale italiano per poi distaccarsene in un personale infinito da approfondire, come se astratto e concreto scoprissero una forma mentis tra intrecci nell’azione che torni alla relazione di rifiuto del concetto di forma.

Vorremmo, allora, idealmente fare e disfare la tela per avvicinarci alla sua arte e intravedere non più solo superfici dipinte ma oscillazioni per uscire dalla bidimensionalità e “collaborare con la luce”, come affermava l’artista. E’ questo il progetto della rassegna che segue le due retrospettive del 2013 celebrative di Salvatore Emblema a Los Angeles e a New York e che ora a Brescia lo affianca a protagonisti e interpreti dell’informale nel secondo Novecento in Italia proponendo contributi di grande importanza per le opere esposte di Carla Accardi, Enrico Baj, Giuseppe Capogrossi, Pietro Consagra, Antonio Corpora, Gianni Dova, Pompilio Mandelli, Ennio Morlotti, Giuseppe Santomaso, Emilio Scanavino, Emilio Vedova, Cesare Zavattini.

L’opportunità è quella di un dialogo nel confronto tra una esperienza artistica del secondo dopoguerra e il dibattito attuale che coinvolge la contemporaneità consapevole della crisi del “quadro” nella cultura visiva che cerca di riannodare la continuità con artisti accostabili a Emblema in questa occasione di omaggio (cinque le sue opere presenti), e nel punto di riferimento conseguito dalla “Galleria ab/arte” in precedenti rassegne come “Guernica docet”, “Il Novecento in movimento” e “Dalle avanguardie alla transavanguardia”. Soprattutto per quanto già Argan scriveva nel 1972 all’artista vesuviano, argomentando che seppure “contestato come prodotto di una tecnica raffinata e come portatore di un messaggio”, spiegava, “il quadro sopravvive tuttavia come una dimensione, un luogo, sebbene deserto, della nostra coscienza”. E definiva Emblema “strumento dell’immaginazione … sul quale l’immagine prendeva corpo di oggetto, si dava come realtà, si faceva coscienza. Ma in questo nostro tempo che glorifica l’informazione l’immaginazione è paralizzata, il suo schermo vuoto non dice che la propria disponibilità o virtualità. Analizzando la realtà oggettuale del quadro - nient’altro che la tela, il telaio, il campo della preparazione - lei [Emblema] constata che ha assorbita e fatta propria la mutabilità e la luce dell’immagine. Il quadro si sensibilizza perché non si limita a ricevere, fa la pittura: non è solo uno schermo, è una matrice. É l’ipotesi, o la prospettiva, di uno spazio immaginario. E anche questo è un messaggio: malinconico, ma non disperato”, chiosava Argan.

Ecco dunque l’individuazione di artisti che consideriamo vicini a Salvatore Emblema in proposizioni che offrono suggerimenti di lettura e di testimonianza in una indagine che comunque preserva il dato di premesse, evoluzioni e appartenenze non sovrapponibili, se non per la ricerca come matrice di tutta l’esperienza artistica contemporanea. Così per Carla Accardi rivolta al segno e a insiemi di segmenti pittorici che saranno notati da Michel Tapié, critico e annunciatore dell’arte informale, e la inviterà alle mostre da lui curate, mentre a Milano irrompe Enrico Baj e la sua opposizione al formalismo stilistico che lo porterà alla fondazione con Asger Jorn, nel 1954, del “Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista” contro la forzata razionalizzazione dell’arte. Così per Giuseppe Capogrossi che manterrà un’unica forma-segno coniugata in diversificazioni utili a costruire lo spazio del quadro, rappresentazione simbolica di una disposizione spaziale. Poi per Pietro Consagra attraverso i suoi valori plastici, e per Antonio Corpora che nell’astrazione si avvicina a un linguaggio dall’espressione informale, e Gianni Dova con il suo “periodo della luce” in cui i soggetti vanno tra uccelli, fiori e i giardini di Bretagna, mentre Pompilio Mandelli disfa la materia in un ultimo naturalismo e Ennio Morlotti, anch’egli a New York nel 1952, appronta cicli dedicati a vegetazioni dai consistenti impasti pittorici. Ancora Giuseppe Santomaso e la sua “elaborazione del visibile” che lo avvicina a Emblema nell’obiettivo di conseguire un livello estetico con il minimo espressivo, ed Emilio Scanavino che cura la poetica dell’informale nell’incontro con il critico Enrico Crispolti che lo metterà a confronto con Wols. In conclusione Emilio Vedova, sicuramente l’esponente italiano più rappresentativo del gesto, del segno e della materia nel rompere gli equilibri formali sconvolgendo lo spazio sulla tela e non solo se guardiamo ai “Plurimi”, e infine il lavoro di un “poeta” come Cesare Zavattini che trova il momento centrale della sua pittura nell’informale con riferimenti soprattutto a Jean Fautrier e a Dubuffet.

Per questi motivi il punto di congiunzione di questa retrospettiva lo troviamo seguendo la traccia data da Argan e in quel processo di sintesi che Salvatore Emblema condivide con questi interpreti dell’arte moderna figlia delle avanguardie, giacché se l’informale mirava al dissolvimento della superficie allora nelle tele dell’artista napoletano possiamo cogliere la revoca e l’eliminazione per giungere alla ricapitolazione dell’arte nell’arte che determina la libertà, “nel passaggio da linguaggio quotidiano a linguaggio artistico”, sottolinea Vittorio Sgarbi.
Andrea Barretta

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