Mostre, Brescia, 09 May 2015
A cura di Andrea Barretta

La sperimentazione Pier Luigi Ghidini l’ha già superata fin dagli anni Settanta del Novecento andando tra postimpressionismo e maniera cubista, poi l’innovazione negli anni Novanta che imposta il realismo fantastico tra naturalismo e simbolismo, e che traccia l’utilizzo di un “filo” conduttore utile allo sviluppo della creatività che sedimenta nei passi precedenti e si rinnova nel cammino dello svelamento a se stesso, fino alla permanenza “abitativa” nell’arte di ridipingere un mondo che non vuole rinunciare all’utopia. Ecco, dunque, che collega angoscia e calvario, condanna ed espiazione, immagini alla fonte di un surrealismo che concilia con una propria autonoma ricerca artistica che, pur superando la razionalità, approda al “cambiare” agognato da André Breton, e mostra se non un mondo nuovo almeno un parallelo dipinto nell’animo.
Di conseguenza le scelte principali sono subito ancorabili al rinvio alla memoria, agli anni Ottanta in cui si libera dagli ultimi schemi espressivi di derivazione geometrica e affronta la fantasia nei giochi dell’immagine. Ormeggia poi in una diversa dimensione e nelle sue ultime realizzazioni assume le roventi contraddizioni dell’umanità andando per quartieri periferici o industriali, indossando il colore forte o visibilmente tremulo alla luce che inonda città ideali lontane dalla miseria dell’esistente e vicine a un presidio a sostegno dell’immaginazione.
Per questo nell’intera opera di Ghidini ravvisiamo l’interesse documentario carico di una determinazione che non lascia margine a diversi esiti se non quelli di una sintonia che pervade i suoi “quadri”, come per le pagine di un libro dove l’artista mette a disposizione di chi legge un suo canovaccio. Quadro nel quadro a comporre scene di un cantastorie, a girare per parlarci della frammentazione sociale all’interno di un nucleo urbano, per stupire o non stupire per niente, perché ci sono modi diversi di vedere il mondo e ritrarlo, nel creare il piacere di sovrapposizioni che rimandano in un altrove in cui attingere l’origine, per rilevare la sfida d’indizi tesi al ricordo e nel non detto che risuona nell’essenza da tradurre in modo letterale. Ecco, allora, scene perennemente assolate, i muri intonacati e puliti, inattaccabili dalle intemperie e con un riguardo armonico a ciò che sta intorno nel dare originalità alla veduta, tra azzurri pallidi e gialli aranci per catturare le vibrazioni della luce e rimanere trasognati per la mancanza di ombre là dove i colori più si accendono e si stemperano nella natura.
Ingredienti di una pittura del silenzio per essere parte dell’appartenenza temporale - misteriosa quanto basta - sempre in procinto di un qualcosa d’impensabile, finché non palesa la soglia da superare per entrare in scenari nuovi come fondali o quinte che si aprono su costruzioni a volte impossibili, rimandi infiniti che trasformano giochi di pareti come specchi a interconnettere universi culturali.
Pier Luigi Ghidini avanza un’inedita variabile dello spazio nella dislocazione degli artefici avvertibili nei suoi quadri quando ci rendiamo conto che vi possiamo accedere e abitarli, e ancora di più quando rileva il rendere intellegibile la nostra epoca, in un’osservazione straniante che nomina in modo compiuto la sua tessitura d’invenzione nelle rifiniture di confessione dell’invisibile, con intuizioni nel ritmo spaziale delle case che pronunciano il paesaggio ma anche lo smarrimento.
Tutto questo perché non tiene conto di giustificare la sua scelta stilistica né di sostenerla con dichiarazioni teoriche perché in quest’assenza-presenza legittima una trasmissibilità della sua arte nel vuoto che è venuto a crearsi tra gli artisti e la gente comune. E questa mediazione è il suo porsi come “genere” che spiega la difficoltà di integrarsi nell’artificio culturale attuale e nell’occorrenza esplicativa in cui riconoscere la pittura come prototipo letterario.

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