Monumentalmente Vostro: l’arte collettiva negli anni Settanta
Mostre, Brescia, 14 June 2014
A cura di Andrea Barretta con la collaborazione di Vincenzo Bruno
Allestimento di Riccardo Prevosti

Una grande opera in una mostra evento che con Vanni Viviani trova accomunati artisti come Bertini, Biasi, Bonalumi, Crippa, Dangelo, Del Pezzo, Isgrò, Kodra, Margonari, Mondino, Ortelli, Ortoleva, Pericoli, Plessi, Pozzati, Rossello, Sarri, Scanavino, Stefanoni, Tadini, Trubbiani, con Baj e altri.

Gli anni Settanta del Novecento rappresentano l’ultima frontiera delle arti visive ormai già corrotte dal “concettuale” che pronunciava la morte delle tecniche tradizionali, mentre l’arte “collettiva” ne segnava il tempo finito di un’esperienza che tentava di elaborarne la manifesta rinuncia all’arte stessa, quasi come se fosse un tabù da esorcizzare per dirsi artisti. Da questo punto comincia il significato di questa mostra, a cura di Andrea Barretta con la collaborazione di Vincenzo Bruno, che guarda all’arte della seconda metà del ventesimo secolo da una particolare ottica, ovvero - strano a dirsi - da quella dell’Arte in una evoluzione a ritroso, seguendo una linea di progressivi cambiamenti che non escludeva il “moderno” in luoghi di ricerca marcati da momenti difficili per la società.
Ipotesi di una metamorfosi che identificava condivisione di temi pur in sensazioni diverse, come nel misurarsi con “altri” per comporre “Monumentalmente Vostro”, la grande opera che trova accomunati artisti come Baj, Bertini, Biasi, Bonalumi, Crippa, Dangelo, Del Pezzo, Isgrò, Kodra, Margonari, Mondino, Ortelli, Ortoleva, Pericoli, Plessi, Pozzati, Rossello, Sarri, Scanavino, Stefanoni, Tadini, Trubbiani e altri: artisti rappresentativi per efficacia d’immagine nonché per quell’apporto culturale d’impegno in esperienze condotte su una dialettica con le istituzioni della quotidianità, dalla politica al lavoro, dagli affetti ai motivi esistenziali.
Nelle due sale della Galleria ab/arte, allestite da Riccardo Prevosti, la mostra introduce un percorso artistico di notevole importanza con pezzi unici e storicizzati a rintracciare discipline di opere che s’incontrano lungo un decennio “rivoluzionario” di vivace dimensione creativa, come articolazione di una estetica che sarà matrigna del contemporaneo. Particolare è il distinguere il rapporto con il mondo interiore partendo dalla base di un monumento, una colonna dipinta da Vanni Viviani su una tela di trenta per trenta centimetri e inviata a quarantotto artisti, pittori e scultori, per coinvolgerli in una sorta di celebrazione, lasciandosi guidare dalla risonanza del sim¬bolo e dalla capacità che esso ha di suscitare discorso, racconto, di evocare, “di sollecitare la memoria sensitiva, i ricordi d’infanzia, i sogni dell’adolescenza, le impressioni sedimentate nell’ascolto, nelle letture, negli studi e nella frequentazione di artisti e soprattutto i vincoli naturali, il legame imprescindibile con la terra, con le sue stagioni, la sua germinalità”, affermava Viviani.
Da qui è possibile riandare a quegli anni che videro una partecipazione “collettiva” degli artisti a possibili temi di appartenenza che oggi non sono più praticati, in una società convulsa e votata all’individualismo, lontani da posizioni critiche e senza quelle qualità in cui trovavano origine, significato e contenuto. Lo aveva ben espresso Ibrahim Kodra nel registrare una lotta di potere “che ha creato un grande dislivello nella struttura economica del mondo”. E “l’egoismo e l’ipocrisia - continua - hanno portato l’uomo a combattere le adeguate riforme necessarie a superare un sistema decadente e ingiusto, fermando così il miglioramento delle strutture sociali più avanzate”, ed ecco, dunque, quel fare arte per cercare di proporre “un problema di lotta verso i sistemi di potere, esaltando nel mondo i vari valori civili e morali validi nel tempo”. Una riflessione attualissima che sembrerebbe scritta oggi, ma è del 27 luglio 1973, quando dipingeva il suo quadro per “Monumentalmente Vostro”. Così pure Gabriele Ortoleva che a corredo della sua opera s’interrogava sulla “necessità di eternizzare un pensiero che è provvisorio come la paglia”, in un mondo di avvenimenti a comporre un “teatro del mistero” in cui “le cose che si mostrano rassicuranti sotto il loro aspetto candido, si muovono spinte da leggi e forze che esaltano tra di loro nuovi valori poetici”, e che distingueva nell’attivismo un merito aggiunto.
Renzo Margonari, infatti, confessava che per una “mela, una vera mela mantovana” potrebbe “fare di tutto, mentre per un “pesce al mercurio, invece, purtroppo, basta un monumento” che Tullio Pericoli seppellisce sotto rilievi acrilici oppure trasformato in una “spugna d’emergenza” da Fabrizio Plessi. Ma è Concetto Pozzati a riportarci sull’idea portante in questo viaggio artistico a distanza, ovvero il siglare il monumento altrui e glorificarlo “da primo premio (basta un piedistallo)”, in situazioni di plausi mercantili che oggi s’avverano in travestimenti per una non arte, e pone la domanda di come sia stato possibile il fuoco di paglia dell’attuale contemporaneità che questa mostra vuole sviscerare, già anticipata da Milena Milani, altra protagonista di questa esposizione, o per quanto Gianni Bertini annotava per un’arte internazionale che riteneva non esistesse perché ad essa si contrappone “un’arte di diffusione internazionale”.
Ci riconosciamo - ed è questo il messaggio della mostra - nell’appello di Guido Biasi di non inumare “l’innocenza” e di far nascere “il sospetto di una coscienza”, almeno per far sì, come ha scritto Gianni Dova, di andare avanti senza tralasciare di guardare indietro, anche se “il passato è tale perché non è più, il futuro è tale perché non è ancora”, precisa Gottardo Ortelli, perché “se fosse sempre presente e non trapassasse continuamente nel passato non sarebbe tempo ma eternità”.
Pur nella complessità e nella coesistenza di linguaggi diversi “l’arte collettiva negli anni Settanta” sicuramente non esaurisce la visione di un decennio così importante, anche e perché l’analisi è rivolta ai principali autori dell’area lombarda, di quella Milano dell’arte in cui accadevano le cose più importanti, ma è altrettanto vero che questa esposizione rappresenta l’esempio di un’arte perduta, di un’arte fuori dal sistema, che si approcciava al mercato ma che non ne era ancora succube.
Parte della storia dell’arte è in questa mostra che antepone alla cultura del cambiamento tout court la concezione di una somma di singolarità a quattro mani che hanno perorato innesti diversi in un patrimonio collettivo frutto di contingenze comuni pur sperimentando tecniche diverse e rappresentazioni diverse, pur in una nuova mimesi che va oltre lo spazio del quadro, quasi in una installazione o in una performance che riassume arte e vita, suggerendo un punto di raccordo allo spettatore, perso tra arte e arte non più specifiche.
Andrea Barretta

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