L’arte oggi racchiude in sé un significato molto ampio rispetto al concetto di bellezza, e richiama - anche se in modo complesso - a una evoluzione della mimesis che più che mai darebbe conto a Platone nel suo rapporto critico con la tesi dell’arte come imitazione, mentre Aristotele vedeva in essa una valenza di verità insita nell’arte stessa.
Perché questo incipit nella presentazione delle opere di Paolo Melzani? Perché l’estetica moderna ha per lui un dovere da assolvere, ed è quello di interrogare e interrogarsi sull’esperienza artistica per tentare di arrivare al bisogno di ciò che Aristotele notava, ovvero alla libertà creativa rivolta all’umanità, e in accordo con Platone alla sua dimensione logica. Perché Paolo Melzani non può prescindere nella sua arte dalla sua laurea in filosofia conseguita presso la Statale di Milano, e non può astrarsi dal suo essere docente e dal vivere a Bagolino, un borgo nella Valle del Caffaro: perché è questo l’humus - conscio o inconscio - cui è riferibile tutto il suo percorso artistico. Una vicenda condizionata da prospettive filosofiche e dalla raffigurazione creativa del reale, in cui andremo a percorrere le tappe salienti di un interagire che segna la ricerca del trasmettere rilievi efficaci: la morale e l’estetica. E’ indubbio, infatti, che Melzani pratichi un’arte figurativa tanto più esplicita quanto più è legata alla sua terra che resta il soggetto trainante della sua produzione. Ed è altrettanto indubbio che trasfonde sui fogli la bravura di chiudere lo spazio in una documentazione di case, alberi e boschi, cieli e panorami, e tra simboli nascosti o palesi, ovvero di un ambiente che s’intreccia con il senso verista e la funzione delle immagini stesse di avvenimenti, luoghi e cose nella loro familiarità, nella loro essenza. Così esercita la mansione dell’artista nell’istante in cui pretende l’oggettività o si presenta come un affresco di conoscenze in cui riversare la teoria platonica dell’apparenza sensibile, secondo cui “quale ciascuna cosa apparisce a me, tale codesta cosa è per me, quale apparisce a te, tale è per te”.
Ci offre, insomma, la riflessione sulla “meraviglia” e sull’essere “straordinariamente meravigliato di quel che siano queste apparenze, e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le vertigini”. E a guardare certi panorami di Melzani, il capogiro - in una sorta di sindrome di Stendhal - arriva come un mancamento perché identitari tra natura e spirito, e se per il filosofo tedesco Friedrich Schelling l’arte è oggettivazione del soggettivo, per il nostro incisore soltanto l’arte, in quanto manifestazione dell’infinito nel finito, può attivare il processo di trascendenza come percezione intellettuale, perché nessun luogo può contenere l’infinito; mentre soltanto attraverso l’arte è possibile conoscere il vero che si avvicini alla verità. (…)
Dalla presentazione di Andrea Barretta
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