STORIE DI PITTURA PIEMONTESE DAL900 AD OGGI
Mostre, Torino, 02 May 2014
INNOVAZIONE E REAZIONE UN PASSAGGIO DI TESTIMONE DAL NOVECENTO AD OGGI

Testo critico di Paola Simona Tesio

Sul finire dell’Ottocento il barone Alessandro Petti scrive sulla scuola piemontese :«L’Accademia Reale istituita a Torino potendo giustamente inorgoglirsi per la sua gloria artistica poiché fra le produzioni moderne che gloria danno alla Italia tutti enumerano a suo vanto delle opere di artisti piemontesi, tale effetto del suo progresso in arte giusto renderebbe il suo orgoglio». Il Novecento, oltre a connotare un peculiare momento storico gravido di mutamenti e ripercussioni esistenziali che inevitabilmente si riflettevano a livello mondiale nell’ambito estetico, rievoca, nella memoria collettiva del nostro paese, quell’importante movimento italiano omonimo che nasceva negli anni Venti intorno alla figura di Margerita Grassini in Sarafatti, biografa, amante e consigliera politica di Mussolini. Fu audace teorica del gruppo dei 7 (Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba, Pietro Marussig, Ubaldo Oppi, Mario Sironi), che nel 1923 fecero la loro comparsa esordendo all’esposizione presso la Galleria Pesaro di Milano. Scrive la stessa Sarfatti nell’opera “Storia della pittura moderna” :«Accadde che un gruppo di artisti amici discutesse un giorno dell’arte italiana e delle sue tradizioni. Fra questi artisti, uno - Anselmo Bucci - che per essere più vissuto all’estero più aveva dei fatti di casa nostra una visione larga e panoramica, si attardò a spiegare lungamente il carattere inconfondibile (come oggi si dice) dell’arte plastica italiana nei secoli: nel Quattrocento, nel Cinquecento, nel Seicento. Nomi intraducibili, come la fisionomia dei nostri più intimi e cari. Non sono cifre soltanto aritmetiche, non sono termini vaghi, che designino soltanto un’epoca composta di 100 anni, ma concretano una realtà tangibile nel tempo e nello spazio. Non vi è ascoltatore distratto, che all’udirle non evochi una visione storica sfolgorante e completa, per quanto riguarda la vita dello spirito e del pensiero, ancor più che le vicende politiche. E, nella vita spirituale, l’evocazione contempla specialmente la vita dell’arte, e, in modo particolare, la creazione plastica[…].“Quattrocento” e “Cinquecento” designano periodi dell’egemonia italiana nel mondo del pensiero. Disse allora qualcuno, a questo proposito, a Milano, nel 1920, in quel cerchio di amici: "Il nostro secolo sento che vedrà ancora il primato della pittura italiana. Sento che ancora si dirà nel mondo e nel tempo: Novecento italiano"».
Nonostante questo periodo incerto (che segnò un ritorno all’arcaismo classico nella contemporaneità di allora, inteso prevalentemente come “ritorno all’ordine” al rispetto dei canoni antichi ed accademici) si giunse a promuovere i caratteri di “italianità” lasciando però margini di libertà interpretativa agli artisti che aderivano al movimento. La Sarfatti, con lungimiranza, non impose mai vincoli né canoni restrittivi, sebbene lo stesso Regime appoggiò la corrente aprendo questioni di delicata interpretazione sull’influenza tra “politica” e arte. In questo breve e frammentario excursus desidererei semplicemente sottolineare che la scuola italiana, ed ovviamente quella piemontese, in tutti i suoi percorsi estetici ebbe sempre vivo un riverbero di originalità e di sapienza espressiva ed emotiva mai del tutto completamente indagato. Basti pensare, anche qui in modo sommario per ragioni redazionali, ai periodi precedenti: come non ricordare il grande artista Giuseppe Pelizza da Volpedo, che connotò d’intensa originalità l’utilizzo arguto della tecnica del divisionismo, facendone una poetica solo sua, connotata da una profonda indagine umana e sociale. Il suo intenso e al contempo sublime “Quarto Stato” incarna appieno tale sentire.
Anche nell’ambito del Futurismo vi fu una risposta alquanto peculiare e “solo nostra” alle istanze mutanti della società in fermento: l’ansia di cambiamento prima di tramutarsi in una questione innovativa, decretando la fede per le tecnologie, esaltando il mito del rumore, della velocità, dell’industria emergeva infatti dalle radici dell’arretratezza e proprio per tale ragione fu così forte. Tra i futuristi spiccano anche nomi di artisti piemontesi: Balla, Carrà, per citare quelli che aderirono al primo Manifesto. In ambito locale si può ricordare, seppur non presente in questa rassegna Nicolay Diulgheroff, la cui estetica, ascrivibile al “secondo futurismo”, era impregnata da una visione e da un vitalismo più “meccanicistico”, costruttivista, volta all’esaltazione di oggetti cinetici e plastici, ingranaggi, ambienti musicali, nonché abitata da un’emblematica architettura che assumeva la “prospettiva della meccanica”.
L’arte “nostra” non fu però mai incanalata in un unico sentire. Tornando al “Novecento”, le risposte dissonanti furono molteplici, come quelle del “Gruppo dei sei pittori di Torino”: essi partendo proprio da echi e reminiscenze futuriste, dalla genesi della formazione di stampo casoratiano, proposero una fuga dall’ordine, ritornando ad uno slancio verso il colore, la materia, l’esistenzialismo, la denuncia di una condizione tragica e angosciosa, riesaminando, anche qui in modo del tutto peculiare, l’impatto espressionista, la poetica di autori come Van Gogh, Munch e quanti avevano lasciato un’impronta lacerante. Sostenuti dai critici Lionello Venturi ed Edoardo Persico, nonché dal collezionista Riccardo Gualino, videro la presenza di personalità come Gigi Chessa, allievo altresì di Felice Casorati, padre di Francesco Casorati. Quest’ultimo, scomparso lo scorso anno, dedicò tutta la sua vita all’arte, onorando le sue origini culturali (la madre, Daphne Maughame, era pittrice ed il nonno, William Somerset Maugham, scrittore e sagace letterato). Dalla sua ricerca carica di pathos deriva una poetica che si potrebbe dire dell’Albero, dedicata a una natura resa inquieta dalla mano dell’uomo, in cui però compare sempre quella straordinaria capacità di raccontare un mondo in grado di affrancarsi e di risorgere attraverso elementi puri. Egli amava la pittura ed il suo amore per l’arte rimane ancor oggi intessuto in quei lavori così tanto carezzati:«Cosa vuol dire amare la pittura?.... Vuol dire non solo fare della pittura, ma soprattutto amarla sopra ad ogni altra cosa, vuol dire vederla non solo nei dipinti ma ovunque, nelle strade, nei prati, nei posti belli e in quelli brutti, sui muri scrostati, nelle pietre rotte, nelle nuvole , nel mare, nelle pozzanghere e soprattutto nei pensieri, nel pensare sempre pittoricamente».
Anche la seconda guerra mondiale aveva prodotto lacerazioni e mutamenti; in seguito al tragico evento venivano meno certezze, si aprivano divergenze tra gli artisti, tra differenti modi di percepire quel periodo oscuro che tanto aveva sconvolto e inevitabilmente modificato tutto l’umano sentire. Per certi versi Picasso, con la sua Guernica (dedicata alla memoria delle vittime del bombardamento aereo dei tedeschi avvenuto nella cittadina basca da cui prende il nome), opera figlia di quell’arte ingiustamente ritenuta “degenerata”, era divenuta un simbolo. Torino, nel dopoguerra, rivestiva un ruolo predominante: nascevano gruppi di artisti legati alle correnti dell’informale che s’interrogavano sui drammi della Shoà, rendendosi conto che il figurativo non poteva più essere adatto a riempire quel vuoto. Quella cesura, quella lacerazione profonda e inumana prodotta dal conflitto, non consentiva più a nessuna immagine di esprimere pienamente il dolore: occorreva allora scrutare nel proprio inconscio e tradurre quei magmi con un nuovo modello visivo. Piero Ruggeri, Giacomo Soffiantino e Sergio Saroni avevano dato vita nel nostro paese all’informale con aspetti distintivi rispetto ai moti analoghi sorti in altre nazioni. L’estetica di Ruggeri è dirompente, decisa, forte, dominata dagli accesi toni rossi che s’incrociano col nero. Soffiantino è complesso, elaborato: incide la materia con il suo gesto sacro.
Sul finire degli anni Cinquanta l’influsso della Pop Art si fa a poco a poco sentire in Italia, ma con argomentazioni e stili differenti: la critica al consumismo si carica altresì di una riflessione ecologista.
Negli anni successivi Torino, con la monocultura della Fiat, è ancora cruciale per l’impatto nell’arte. All’estero la metropoli è definita “Detroit italiana”; è fervida di contaminazioni culturali che vedono protagonista proprio la condizione operaia: i lavoratori del Sud si scontrano-incontrano con la freddezza del Nord. Ne emergono differenti concezioni: un’arte “primitivista” si avvale del recupero di materiali tentando, attraverso essi, di accostarsi a quel problematico universo operaio: legno, carta, elementi vegetali come le patate… un ensemble per spiegare che l’opera non deve più essere collocata nel museo, ma tra il quotidiano esistere e soffrire della gente. Il Sessantotto (che si estenderà per una decina d’anni), con il medium dell’arte povera tenta di rappresentare le lotte operaie e giovanili: Mario Merz, mediante il concetto arcaico dell’igloo attraversato dagli elementi futuristici della luce, interseca alla materia flussi di energia mentale e riflessioni ideali. Le Veneri di stracci di Pistoletto, invece, incarnano una valenza concettuale. Ma fioriscono altre correnti, anche non del tutto incanalate. Luigi Mainolfi è la voce della sperimentazione, legata però al richiamo della terra, elemento cardine ed essenza primaria del suo fare scultura:«Ancora oggi penso che il mio lavoro è sperimentazione, come se mi stessi affinando e preparando per un altro tipo di lavoro: credo che l’esperienza serva a questo, io non mi fermo sul lavoro già fatto, il mio sogno è realizzare ancora di più, arrivare a quel momento dell'esistenza per la quale ho sempre lottato, come quelli che hanno fede in qualcosa, anche se so che non arriverà mai, però questo tentativo di salire o scendere o volare appartiene al mio lavoro». Slancio continuo, vitale, che rievoca il sentire del filosofo Henri Bergson. Sempre nell’ambito plastico c’è Sergio Ragalzi, con le sue installazioni legate a temi della paura e della morte, all’insegna di un’estetica del perturbante; morte forse da intendersi come categoria d’interpretazione, simile a quella proposta dall’antropologo Ernesto De Martino che indaga annullamento e dissoluzione dell’essere umano partendo dall’esistenza del primitivo in bilico tra affermazione di sé (quindi presenza nel mondo) e l’universo labile in cui è gettato e costretto a vivere.
Difficile tracciare un itinerario preciso in questo magma prolifero di artisti che hanno caratterizzato questa regione; si potrebbe decretare, parafrasando Luigi Pirandello, “Ciascuno a suo modo”; del resto, proprio in Piemonte, sul campanile di Coazze, campeggia un motto analogo. Individualità e peculiarità espressive hanno dominato sempre i talentuosi geni creativi che si sono avvicendati tra i passaggi di testimone avvenuti intorno alla fiorente Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e non solo, perché molti altri, anche rimanendone al di fuori, ne furono in qualche modo influenzati. Tra le promesse del futuro va nominata l’artista Katarina Balunova, che intesse un’interessante riflessione sui luoghi: in essi il passato è sempre posto in relazione al presente e al divenire, una traccia percorre questo continuum temporale, diviene concreta, solca e trasforma. La sua idea di città è indagata sin dai passaggi più antichi: l’uomo modifica uno spazio di natura per renderlo consono al proprio abitare, ma contemporaneamente lo rende ostile, esasperandolo in una sorta di “gabbia”. In tale trasmutazione gli animali si smarriscono e sembrano confondersi in quel disegno “troppo umano” che portato all’estremo diviene distruzione.
In questa “Innovazione e Reazione” dell’inesauribile Piemonte fervido di idee, cito quindi tutti gli autori presenti in mostra (che elenco in ordine non storico ma alfabetico): Sergio Agosti; Oscar Bagnoli; Katarina Balunova; Ermanno Barovero; Gianni Bertini; Alfredo Billetto; Romano Campagnoli; Antonio Carena; Francesco Casorati; Enrico Colombotto Rosso; Anna Comba; Pietro Paolo Cotza; Guido De Bonis; Matilde Domestico; Gianfranco Galizio; Albino Galvano; Walter Jervolino; Horiki Katsutomi; Luigi Mainolfi; Adriano Parisot; Sergio Ragalzi; Carol Rama; Piero Ruggeri; Marina Sasso; Filippo Scroppo; Beppe Sesia; Giacomo Soffiantino; Mario Surbone; Adriano Tuninetto; Maya Zignone;Gilberto Zorio. Non ho potuto, per ragioni di brevità, menzionarli tutti in modo adeguato, e me ne scuso, ma vorrei ricordarli comunitariamente attraverso il pensiero del filosofo Walter Benjamin, per suggerire di cogliere il passaggio di testimone avvenuto tra gli interpreti che si snodano fra le varie generazioni con uno sguardo d’insieme. Vi lascio pertanto riflettere alla luce dell’appunto contenuto nei Passages: «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma l’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: l’immagine è la dialettica nell’immobilità. Poiché mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, quella tra ciò che è stato e l’adesso è dialettica: non di natura temporale, ma immaginale.[…] L’immagine letta, vale a dire l’immagine nell’adesso della leggibilità, porta in sommo grado l’impronta di questo momento critico e pericoloso che sta alla base di ogni lettura».

Torino 20 aprile 2014

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