Interviste, Caserta , Caserta, 14 May 2013
Non ha bisogno di lunghe presentazioni Andrea Santacroce, l’architetto napoletano che attualmente esercita la sua professione presso lo Studio Architetti Associati di Caserta e che ci ha concesso questa intervista, in quanto le sue risposte rappresentano appieno una vita vissuta sempre a contatto con l’arte in tutte le sue forme, senza avere remore nello sperimentare e nel crescere tanto nel disegno figurativo quanto in quello architettonico. Le nostre domande si sono incentrate maggiormente sui suoi disegni che potete ammirare qui (http://www.premioceleste.it/ita_artista_opere/idu:62240/), ma, inevitabilmente, notiamo come commistioni e influenze con la sua esperienza nell’architettura sorgono spontanee.

Quali sensazioni fanno nascere dentro di te il bisogno, nonostante la tua professione di architetto, di esprimerti attraverso le arti figurative? E' per una continuità che vedi tra queste forme espressive o è al contrario una sorta di "rifugio" dalla tua attività lavorativa quotidiana?

Allora precisiamo un po’ di cose. La passione per la pittura nasce da lontano, da quando frequentavo da bambino lo studio di mio zio Rubens Capaldo, pittore affermato della corrente figurativa napoletana che dal dopoguerra sino agli anni ’90 ha avuto un discreto successo di critica dipingendo essenzialmente nudi di donne giunoniche e paesaggi.

Ho sempre disegnato e sperimentato parallelamente alla ricerca architettonica. Parlo di ricerca perché sia per il lavoro come Docente a Contratto nella Facoltà di Architettura della Seconda Università di Napoli, sia nel lavoro professionale la riflessione sull’immagine e la comunicazione è centrale, e questo rapporto tra ricerca compositiva e rappresentazione della visione condiziona, in modo decisivo, il campo pittorico.

A partire da ciò, dipingere non è mai stato un ‘rifugio’ ma un modo di esprimere stati d’animo, approfondire tecniche di rappresentazione, assecondare le visioni e trasformarle in immagini che si accavallano alle architetture. Questo rapporto tra disegno e rappresentazione viene proprio dal tipo di formazione avuto all’Università. Basti pensare che quando studiavo il computer ancora non era così diffuso e accessibile (uscivano appena i primi esemplari con programmi rudimentali di disegno vettoriale), si disegnava ancora con matita e china. Allora usavo per rappresentare i miei lavori l’acquerello (che continua ad essere una delle mie passioni), così, ad esempio, i disegni della Tesi erano composti da una ventina di tavole ad acquerello su carta Canson 150 x 70 che furono pubblicati nel 1997 su una rivista di settore di livello internazionale ‘Casabella’.

I tuoi lavori ruotano tutti attorno allo studio della figura umana, in particolare del corpo femminile. E' lo scorgere di possibili analogie tra l'anatomia e l'architettura?

Se la ricerca pittorica i primi anni individuava nelle figure del corpo quelle misure anatomiche che governano lo spazio, ultimamente le sagome di esseri atopici volteggiano su profili di paesaggi diafani ma reali. La trasformazione avviene sullo sfondo di una trasmutazione della visione: era immaginifica ed interiore, ora trasmigra in mondi reali attraverso l’osservazione di paesaggi suburbani.

Tutto avviene attraverso l’osservazione dei paesaggi che producono la serie dei ‘profili urbani’. Alcune considerazioni su questo nuovo ciclo sono scritte sul mio libro dal titolo “Trasformazioni di un Paesaggio” edito da Letteraventidue, 2010. Qui si trovano alcuni lavori fotografici e di grafica digitale che anticipano questi lavori pittorici e alcune note sull’atto dell’osservare: “Leggendo tra le pieghe più recondite della città si scovano le ragioni di questo studio: già si sa cosa si vedrà, ma il modo di vedere e riproporre le cose osservate rivela una interpretazione del già visto.

Proponiamo una nuova coscienza dei luoghi e una consapevolezza diversa nella lettura della loro trasformazione. E’ come rivedere la scena di un film sapendo come andrà a finire così da poter impegnare lo sguardo su nuovi particolari che prima erano sfuggiti. Forse questi disegni non dicono nulla di nuovo, ma aggiungono una conoscenza pretestuosa della realtà, applicando un metodo scientifico di lettura fondato sull’osservazione di oggetti tangibili.

Consci che questa attività può avere una diversa risonanza a seconda dell’azione dello sguardo che si esercita e di come tale azione viene esercitata, si può affermare di utilizzare un metodo deduttivo condizionato dall’attività d’indagine prefissata. L’atto dell’osservazione, dello sguardo, inoltre, da sempre è il momento primario delle arti visive; l’intreccio con la ricerca mette in moto un campo intermedio tra azioni prevalentemente ‘artistiche’ e ‘scientifiche’”.

Assistiamo inoltre a lavori prevalentemente monocromatici, dove il colore assume un significato espressivo, più che descrittivo; è un tentativo di subordinare il colore alla forma o, semplicemente, riesci ad esprimerti al meglio tramite questo approccio?

Una delle questioni che condiziona il mio lavoro sia architettonico che pittorico è la capacità delle forme di interagire con l’osservatore o il fruitore attraverso la luce. Il colore o i materiali assumono la propria natura grazie l’intensità della luce; il colore assume un’importanza relativa in virtù della presenza dei chiaroscuri. Non uso quasi mai il nero ma toni più scuri o più chiari di colore.

Un'opera che ho trovato particolarmente interessante è stata Passione (nell’immagine in alto, NB); la testa reclinata, lo sguardo assente, le tinte cupe che si aggregano numerose sul corpo innaturale del soggetto, quasi sovvertendo i canoni monocromatici delle altre tavole: tutti elementi che puntano ad una forte drammatizzazione, tra sacro (nel titolo) e profano. E' più la rappresentazione di una tua visione del mondo o di una dimensione interiore personale, quella che hai fatto trasparire sulla tela?

Si, può essere emblematica di un determinato periodo del mio modo di dipingere che faceva dell’espressione, della materia, degli acrilici e dei colori intensi la mia poetica. Questo periodo precedeva di molto il film musicale del 2010 di John Turturro che ha lo stesso titolo del piccolo quadro realizzato nel 1998. Ci sono diverse analogie sul modo di intendere la passione compreso l’amore per Napoli, la musicalità dei colori, l’intensità delle luci, la spontaneità dei napoletani; nell’introduzione lo stesso Turturro dice ‘ci sono posti in cui vai una volta sola e ti basta... e poi c'è Napoli’

Quale consiglio ti senti di dare ai giovani che vogliono emergere nell'ambito dell'arte, senza dire necessariamente addio alla loro realtà territoriale?

E’ una domanda che non ha risposte universali ma singole, specifiche che dipendono da diverse variabili; una di queste è cosa un giovane artista si aspetta dalla vita. E allora la cosa che mi sento di dire è solo di seguire il proprio istinto e credere ciecamente in quello che si fa, fino all’ossessione.

I grandi maestri sia della pittura che dell’architettura questo insegnano: credere in quello che si fa e mettersi sempre in gioco superando delusioni e sconfitte. Racconto un episodio poco conosciuto della storia di Gian Lorenzo Bernini, acclamato scultore ed architetto (anch’egli di mamma napoletana) alla corte papale nel seicento. Ormai alla fine della sua carriera, in declino per l’età avanzata prima di morire grazie alla sua ostinata ossessione di espressione, realizza un capolavoro scultoreo poco decantato dalla storiografia ma che vi consiglio di andare a vedere a Roma, nella chiesa di San Francesco a Ripa: ritornando sul tema dell'estasi cristiana in una piccola cappella dedicata alla Beata Ludovica Albertoni, scolpisce una statua di una intensità e drammaticità unica, collocata in modo da esaltarne le forme grazie ad una illuminazione naturale radente che la irraggia nella penombra della cappella. Ancora una volta riemergono i temi della composizione a me cari: la luce, la posizione degli oggetti, l’ossessione e l’intensità del lavoro.

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