"L'inferno necessario"
Mostre, Salerno, Auletta, 21 August 2015
L'Inferno necessario

L'arte non è un oggetto da ammirare e da studiare ma un modo di fare e
vedere le cose. Da questa semplice idea è nato “Manifesto Brut” a cui ha
aderito un gruppo eterogeneo di artisti, una comunità subalterna capace di
infrangere la linea di anni e anni di resoconti ufficiali che hanno sempre
riportato una visione parziale degli avvenimenti. Uno dei più importanti
enunciati teorici di Manifesto Brut si propone di disarticolare la coalizione del sistema dell'arte che lega l'artista al critico e il gallerista al collezionista e che
ha come conseguenza la sottomissione al mercato dominante. Conformità
all'ideologia e al mercato hanno prodotto un silenzioso assenso, hanno
compromesso il legame tra arte e vita. Questa visione ha portato l'arte fuori
dalla vita e la vita verso qualcosa che non poteva essere restituita all'arte se
non attraverso un'immagine stereotipa e sterile. La filosofia di Manifesto Brut
si ripropone di mettere di nuovo l'uomo al centro dello spazio personale,
quella bolla immaginaria che definisce ogni individuo, il suo esser-ci al di là
dell'essere, il “Das-sein” rivalutato da Heidegger in Essere e Tempo, la zona di
intimità in cui vivono il corpo e il suo linguaggio. In quest'ottica è compreso
un recupero della forma in cui l'arte allo stato “brado” faccia emergere i valori
del segno, inteso come puro gesto esistenziale, e della materia capace di
riassumere un senso. La centralità dell'uomo-artista porta a riconsiderare i
rapporti tra storia delle immagini e storia del contesto al di là delle continue e
taciute contaminazioni dell'arte che, oltre ogni limite di postmodernità hanno
favorito il succedersi di operazioni pianificate più che di immagini. Essere al di
fuori di questo sistema dell'arte, sia pure tra mille difficoltà, significa sottrarsi
all'opacità della tradizione più recente, opporsi a un sistema critico che può
dire tutto e non lo fa, decide di omettere e tacere addensandosi intorno ai
pochi e noti poli delle tendenze emergenti a livello internazionale. La giusta
critica al sistema non consiste, come invece ci si compiace solitamente, nel
coglierlo in fallo o nell'interpretarlo in modo insufficiente, ma nel renderlo
criticabile, parziale, circoscrivibile. La caratteristica principale dell'arte
concettuale, e sua forte debolezza, è la stretta necessità di un contesto in cui
esprimersi: la sua evoluzione dagli anni settanta ad oggi ha sviluppato un tipo
di linguaggio che trasmette il suo contenuto solo attraverso una relazione
molto stretta con il sistema entro cui è cresciuta. Quindi il significato
dovrebbe crollare miseramente svoltato l'angolo del contesto, degli elementi
socioculturali che l'hanno generato. Per evitare questo processo di
imbalsamazione precoce, di istituzionalizzazione, Manifesto Brut propone una
pratica artistica alternativa svolta al di fuori degli spazi deputati, libera dalle
gallerie, dal mercato e dalla storicizzazione. La rincorsa a un linguaggio
internazionale dell'arte, alla citazione e alla pedissequa capacità mimetica
subordinata a un mercato aggressivamente connotato ha soffocato
un'estetica legata alla cultura occidentale, ai principi eurocentrici.
L'accentuazione dei processi di omologazione cosmopolita ha reso sempre più
incerti i confini identitari e rilanciato paradossalmente un bisogno di
riflessione sui valori delle culture nazionali. Globalizzazione e frantumazione
particolaristica sono due facce della stessa medaglia, un aspetto delicato dei
mutamenti in corso. Riunirsi collettivamente come hanno fatto gli artisti
aderenti a Manifesto Brut può essere un modo per confrontarsi con una
molteplicità di differenze non ridotte a stereotipi? E se questo è possibile
come si porranno gli artisti di fronte alla proliferazione dei linguaggi dei media
e delle conoscenze tecnologiche sempre più invasive? E' questa la scommessa
che vede gli artisti riuniti nuovamente in una mostra collettiva che coinvolgerà
diverse strutture, spazi adibiti a laboratori e luoghi espositivi. Una riunione
non generica nonostante l'estrema moltiplicazione di personalità, stili,
linguaggi. Nero Inferno è un progetto di mostra il cui imperativo categorico è
quello di confrontarsi con le istanze, non solo artistiche più urgenti del
momento, di trovare spiragli di infiltrazione cosciente nell'iperrealtà mediatica,
di mettersi in relazione con problemi universali filtrati da un vissuto personale
che ambisce a collegarsi ad energie collettive pur avendo a che fare con il
proprio patrimonio visivo e immaginario. Gli artisti provenienti da diversi
paesi, tuttavia legati in un modo o nell'altro alla realtà del nostro,
appartengono a questo modello informativo reticolare che rimette in
discussione le tradizionali dicotomie come “centro” e “periferia” e permette ai
nuovi soggetti di avere voce, di dare importanza ulteriore alla necessità di
collegamenti, alla costruzione di sinergie tra gruppi e individui. Ecco che
l'opera d'arte si apre a nuove possibilità linguistiche, rompendo con l'oggetto
inteso come merce, volgendo il discorso sempre più verso il frammento, le
strutture minime, i codici linguistici, la discontinuità, l'interdisciplinarietà, i
materiali poveri, il linguaggio del corpo, l'immagine fotografica.
L'arte di Manifesto Brut diviene documento, pratica, percorso, informazione e
il problema del valore si sposta dal campo estetico a quello etico.
Il tema della Menzogna che ha connotato la mostra degli esordi sottolinea
questa presa di coscienza nei confronti delle emergenze del mondo attuale in
cui la verità va ricercata in quegli spazi finora inattraversati. La libertà che
apre all'immenso di pensieri non ancora pensati, a quella contraddizione tra
corpo e anima, a quello spazio sconosciuto che c'è in ogni uomo e che
l'artista non riesce, se non molto raramente, a scoprire. Indagando il tema
della Menzogna, in un mondo in cui tutti i media si sono uniformati a una
unica e conforme versione dei fatti, gli artisti del Movimento Brut si spingono
nell'indagine delle pieghe del negativo, un campo non ancora esplorato, e
tentano di rivelare una nuova realtà che l'evento ha in sé: la totalità del
quotidiano, il binomio tra arte e vita.
Siamo sull'orlo del disastro senza che lo si possa situare nell'avvenire, siamo
sotto la sua minaccia e quindi impossibilitati a fermarci a qualcosa di
definitivo, di pensare quindi a qualcosa di determinato. In questo spazio di
“Opacità malefica” (come l'avrebbe definito Baudelaire) si è rotto ogni
rapporto tanto con se stessi quanto con l'altro. Regna la differenza
paradossale, l'opera è svincolata dalla sua necessità di esistere e il pensiero
non analizza più l'individuo e la sua presenza nel mondo. Viviamo in una
realtà quotidiana immersa nella menzogna, nel buio della menzogna
spacciata per verità e certezza: questa è la conclusione a cui sono arrivati gli
artisti che hanno partecipato alla mostra “La Menzogna”. Gli artisti tutti
insieme hanno realizzato che può esserci spazio per la rinuncia al possesso di
sé, all'unità delle personalità in favore della pluralità. Non esiste più un sé
vero e proprio ma varie versioni tutte legittime di ciascuno. Siamo tanti
individui, tanti ruoli, quante sono le situazioni e i giochi sociali entro cui siamo
inseriti. Si può essere tanti individui potenziati in uno, si può vivere in un
mondo in cui si partecipa a più mondi vitali. Dopo lo smascheramento della
menzogna è necessaria la rivelazione, la scoperta. Scendere nell'Inferno per
dissipare le tenebre, risalire lungo la grotta fino alla sorgente del fiume,
scoprire cosa c'è nella profondità della terra e riportarla in superficie, alla
luce. Questo viaggio sotterraneo è la ricerca della propria origine. L'Inferno è
necessario perché la verità di un fatto è ombra, è l'oscurità che non può
essere rivelata che come tale. Il viaggio nel profondo dell'inferno è nell'offrirsi
al rischio di non essere compresi, e , al limite, neppure capiti come uomini o
come simili, allora è la terra a offrirsi senza nessun orizzonte e la pietra a
coprire una vastità senza riferimento in una oscurità in cui la notte è senza il
giorno. Qui il viaggiatore incontra quella parte dell'anima che è la meno
spirituale perché è la più istintiva. L'anima-animale appunto. E istinto vuol
dire fondersi con gli elementi sotterranei, quelli più vicini al nostro inconscio, i
pensieri sepolti nel profondo di noi stessi dove alla fine ciò che si trova è la
giusta dimensione di sé. Nella profondità dell'Inferno va ritrovata la
consapevolezza della propria spaesata e casuale esistenza sulla terra, il cui
senso si mostra devastante nella sua vastità, nella sua totale indifferenza.
Risalire il fiume Negro significa risalire verso l'origine, attraverso l'acqua
impregnata dalla morte dove l'odore della menzogna è essa stessa corruzione
e morte, in quella solitudine che costringe i nostri pensieri a non mentire più.
Allora, ma solo allora, il viaggio diventa un'occasione per l'anima. Nell'Inferno
non c'è contraddizione, manca il conflitto, tutto è dannazione: andare fino in
fondo all'Inferno ci rivela quanto è breve nel nostro mondo la distanza tra il
bene e il male e che catastrofe e salvezza possono anche essere questioni di
punti di vista. Gli artisti di Manifesto Brut devono scoprire che il male, l'orrore
non sono fuori di noi ma dentro di noi. La menzogna è dentro di noi, instillata
profondamente, nelle trite parole di tutti i giorni, quelle parole che non vale
nemmeno la pena di ripetere tanto sono ormai prive di senso.
Il viaggio nel Nero Inferno deve far uscire gli artisti dall'abituale e quindi dalle
loro abitudini per esporli all'insolito, per costringerli a capire. Il modo in cui le
rocce incombono sopra la testa, il modo in cui la stalattite si è formata nei
millenni, il fiume si fa ansa e la terra si fa solco e il sole si congeda
all'orizzonte e che anche se arriviamo fin dove la profondità è vertigine e
paura si può sempre salire a rivedere le stelle.

Maya Pacifico

Commenti 0

Inserisci commento

E' necessario effettuare il login o iscriversi per inserire il commento Login