News, Venezia, 15 December 2012
Il mio lavoro nasce dalla necessità di interpretare e comunicare ciò che mi sta intorno. Mi sono sentita a lungo come sbalzata in un paese straniero, tra suoni e vocaboli a me sconosciuti e cartelli con lettere incomprensibili; ho iniziato a cercare la mia parola. Il mio senso dell'arte è la descrizione di ciò che mi è dato vedere, strane figure e fisionomie galleggianti, i volti deformi o misurati e perfetti come giada, queste bianche figure che abitano il mondo più crudo che so sopportare, in cui cerco il mito che sembra reale e più ancora quella realtà così strampalata che sembra non poter essere, le loro empatiche inquietudini. Per raccogliere tutto questo mi serviva uno strumento, per tramandarlo una lingua, e lo strumento è stato l'obiettivo e la lingua la fotografia. Non volendo rischiare il dilettantismo che imperversa particolarmente in quest'arte, ho seguito studi molto tecnici, d'impostazione tradizionale e di taglio documentario. Quando ho sentito di possedere l'arte, ho capito di poter permettere a me stessa di contaminarla e mi sono orientata sulla pittura digitale. Il digitale è stato una scoperta stimolante, per la brutalità con cui ti spiazza con un lavoro che sembra finire nel piccolo istante in cui si preme il bottone dello scatto, lasciandoti quella colpevole sensazione di aver rubato alla realtà, come se l'idea da cui ti eri slanciata fosse troppo fuori da te per appartenerti abbastanza; ma di fronte a queste citazioni catturate al mondo esterno nelle mie scatole di luce, resto giorni e giorni e ancora giorni a cesellare, a ricamare, a velare come un pittore rinascimentale, incatenata ad un Mac, tra occhi gonfi e collezioni di tazzine di caffè, a manipolare come un distorsore per chitarre, col gusto di dipingere una foto senza mai trasformarla in un quadro, riguadagnandomi il perdono di Madre Natura defraudata. Non sono una fotografa che scatta molto; ogni mio lavoro è lungamente meditato. A volte aspetto semplicemente per lungo tempo che qualcosa catturi la mia attenzione e allora lascio quello stimolo in una stanza vuota della mia mente, come un pezzo di un grande puzzle che lentamente si formerà. E' una stanza che si riempie di disegni, scarabocchi, bozzetti e discorsi polemici, con chi mi aiuta con le sue osservazioni impietose, briciole dappertutto e grandi ispiratori di quest'arte e di tutte le altre, a cui rivolgersi nei momenti di sconforto. Adesso che la stanza è piena è il momento di chiamare i miei modelli, di accendere le luci, spostar mobili, mescolare vestiti e tessuti e tirar fuori il repertorio degli oggetti più improbabili sbucati da mercatini e vecchie soffitte. Poi bisogna lasciare il tutto a lievitare per qualche tempo, per capire bene cosa diventerà, tenere i quadri rivolti sul muro per disabituarsi alla loro visione e individuarne le imperfezioni, come consigliano i pittori, e riprendere il tutto per le mani quando la mente sarà pronta all'autocritica. Nei miei occhi ciò che vedo è mio soltanto, ma per lasciarlo anche a voi mi serve una giusta presentazione. Sono molto affascinata dalle possibilità di stampare su materiali inconsueti e dalla molteplicità dei supporti; seguo sempre con molta attenzione questa fase di “vestizione” delle mie piccole creature. La mia fotografia ha bisogno di un architettura come alle madonne gotiche servivano colonnine tortili e pinnacoli fioriti per cornici. Anche se mi piacerebbe poter concentrare tutto quello che ho da dire in un'immagine pregna di senso, sono quasi sempre tentata di continuare il mio discorso in una serie di scatti, rincorrendo la storia, la favola, il teatro, in un percorso che non può che essere per tappe. Sono affascinata più dalla storia che dalla rivelazione.
E questa è la storia di come ho imparato a parlare.
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