Premio "Dono dell'Umanità" della Baronessa Soares
Testi critici, Milano, 18 December 2012
La pittura di Susy Cagliero soltanto apparentemente
non è abitata dall’uomo. Osservandola
si è colti da un senso di
straniamento che rievoca, ma soltanto in
parte le immagini di Eugène Atget, il
primo artista del Novecento a ritrarre le
vie di Parigi deserte lasciando trasparire un
senso di inquietante desolazione abilmente
descritta dal filosofo Walter Benjamin
che sottolinea «erano state comparate
alle fotografie del luogo di un delitto».
Nelle sue opere utilizza materiali di recupero,
come sacchetti di plastica, polietilene,
nylon, paglie di ferro, reti, che
donano un’autentica tridimensionalità
resa attraverso le innumerevoli sovrapposizioni.
Emergono paesaggi urbani in cui
albergano sensazioni di déjà vu, rimandi
continui ed immediati che rimbalzano infinitesimali
tra passato presente e futuro.
Saette istantanee, falshback che illuminano
la coscienza, emergendo dalle vibrazioni
dei quadri, catapultando l’osservatore
in una scenografia già vista. L’ausilio
di reti sovrapposte crea uno straordinario
effetto surreale che è al contempo in grado
di suggellare un incontro con il vero. Il degrado
ambientale e la barbarie dell’uomo
coabitano questi paesaggi urbani nostalgici e suggestivi. Come la stessa artista sottolinea: «si tratta
di luoghi comuni che non sono reali ma esistono in una sorta d’introspezione, dove ognuno di noi
trova “immagini immaginate”, vissute con la mente». In un certo senso si potrebbe affermare che
la capacità umana di “vedere prima”, troppo spesso sopita e ignorata, può consentire di esperire in
anticipo sensazioni drammatiche, forti in grado di preannunciare eventi disastrosi e di permettere
all’uomo lungimirante di evitarne il verificarsi. Ascoltare le parole dell’artista «siamo sempre in
un tempo che è già stato …» e immedesimarci nelle sue pennellate, ci consente, in un certo senso,
di entrare in empatia con l’uomo e la sua storia. Non è possibile descrivere appieno la tecnica unica
ed inusuale di Susy Cagliero, che implica l’immergersi, il fondersi, l’integrarsi nell’essenza dell’opera.
Infatti la struttura architettonica delle reti su cui viene intessuta la pittura in acrilico restituisce
allo sguardo un fine cromatismo da cui si stagliano effusioni luminose che si stemperano
in opache traslucenze. Questa compenetrazione tra il visivo ed il tridimensionale è davvero autentica,
e potrebbe essere definita “archeopittura visuospaziale”, in questo frangente legata all’ambiente
urbano. Interessanti altresì i lavori in cui compaiono incastonati sul supporto placche di
segnali e prescrizioni, che nella maggior parte dei casi sono vere e proprie targhe segnaletiche prelevate
dai contesti reali, quali, ad esempio, fabbriche in disuso. Per l’artista queste cartellonistiche
rappresentano degli ordini di comportamento che non vietano qualcosa, bensì impongono una rigida
disciplina della vita. Comandi, direttive la cui derivante accettazione significherebbe imbavagliare
la natura dell’uomo o auto-imbrigliarsi. Il filosofo Walter Benjamin, nella sua opera incompiuta “I
«Passages »di Parigi”, presenta al lettore un’intensa espressione del pullulare dei materiali e un’infinita
integrazione del reale storico, restituendo una delle più autentiche chiavi di interpretazione
della contemporaneità. Dipinge la merce, la prostituzione, il flâneur, il gioco, la moda, l’Art Nouveau,
la modernizzazione urbanistica e tanti altri frammenti, mentre in “Infanzia berlinese”, sua
autobiografia anomala, lascia un’indicazione suggestiva «Non sapersi orientare in una città non significa
molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una
foresta». Perdersi vuol dire quindi ritrovarsi. Nell’arte di Susy Cagliero, inizialmente, si percepisce
un senso di smarrimento solo apparentemente destabilizzante; in realtà questa sensazione è la traccia,
appunto, per ritrovarsi.
(Testo critico di Paola Simona Tesio per catalogo dell'Evento)

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