Non si tratta di una contraddizione, ma di una plusvalenza di motivazioni che si concludono -è stato detto- nella stabilità del reale “che non si muove” (il sofà, i peperoni, il gatto, la luna), anche nella continua scoperta dei significati in divenire, ai quali attribuire l’adeguata equivalenza, nonostante il conflitto tra detto e non detto, tra stasi e movimento, tra concetti simbolici e contenuti reali. Diceva Duchamp che “non si valuta a parole il contenuto o il valore di un quadro”. Ma d’altra parte non si dovrebbe usare il linguaggio dell’uomo per trascendere la sua esperienza. Del resto l’arte -come ci conferma l’opera complessa di Rinaldi- ha usato la convergenza di elementi e concetti diversi in un’unica forma espressiva, in cui le scoperte della genialità dell’uomo convergono “nelle zone misteriose del subcosciente”, diceva Marinetti.
La pittura di Rinaldi, pur tenendo conto delle regole semiologiche del quotidiano, ha spiazzato i significati rispetto alla logica delle parole usuali e ha lasciato affiorare le “frasi inattese”, ovvero quella follia o se vogliamo l’hasard che si nasconde nella verità ipostatica delle cose.
Non si tratta soltanto di una rappresentazione illusoria della realtà -anche se il trompe-l’oeil, con il suo “sembra vero”, concorre a stabilire una identità tra l’ideale e il materiale- ma dell’approfondimento dei significati emergenti dai labirinti del profondo, in cui il vedere e il sentire hanno un’eguale matrice creativa.
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