Il peso delle immagini
Già, il “peso”. Ma le immagini hanno un peso? Se si osserva il modo di “fare arte” che accompagna Giuseppe Bazzocchi nel corso degli ultimi 15 o 20 anni si direbbe che le immagini che sostanziano la sua ricerca abbiano il peso della passione e della lotta, del desiderio e della speranza – qualche volta anche del fallimento.
Ma se questo, in fondo, sembra costituire la paradossale esperienza in cui si esplicita buona parte dell’arte contemporanea, nel caso di Bazzocchi ci si trova di fronte ad un glomerulo difficile da districare, in cui i “mezzi” espressivi si moltiplicano e si contaminano, in cui la gestualità, il cromatismo, la ricerca della forma, si coniugano prima con lo sforzo di rendere ragione della “trasparenza” e, successivamente, si confrontano con l’ostacolo del “volto”.
Un po’ come se il tentativo di fornire un resoconto trasparente dell’anima non risultasse più sufficiente, non foss’altro per il rischio di confondere la maestria con l’illusionismo, la selezione dei materiali con un programma che non può essere condotto a compimento.
Ed allora, per evitare il compiacimento e l’innamoramento narcisista, Bazzocchi avvia un originale approccio alla “figura”, al “volto”, che in anni recenti si articola e si “complica” – in un processo di autocitazione – attraverso l’impiego di brandelli digitali di lavori non recenti che sono impiegati per comporre collages che danno vita ad immagini senza peso.
La testimonianza del gesto che un tempo aveva dato vita alla fisicità dell’immagine, alla sua consistenza, il “passato” in una parola, diventa una sorta di pretesto frammentato che persiste proprio in quanto si dematerializza. E questa perdita di peso ora si traduce nella vertigine di un abbozzo che appare compreso nei limiti di una forma.
Come se la promessa di salvezza che ci sembra garantita dalla tecnica potesse dominare la più drammatica ed illusoria delle finzioni: il tempo.
Bruno Bandini
Commenti 2
Inserisci commento