La giovane critica d’arte Silvia Cicio intervista per Soqquadro l’artista Ramon Trinca
Interviste, Roma, 06 January 2014
La maggior parte delle sue opere sono volti, descritti con una visione espressionistica più che realistica. E’ evidente che per lei un volto è lo specchio dell’anima, ma che rapporto ha con la corporeità? Anche il corpo “esprime”, perché nelle sue opere non lo fa mai “parlare”?

L’identità dell’individuo, la sua anima, ha il suo indirizzo nel volto. La fisicità è solo un passaporto. Del resto il primo stimolo visivo a cui un neonato risponde è la rappresentazione del volto, ed è uno dei primi che rappresenta. In un sistema sociale dove il corpo è deturpato come mezzo di sola e unica comunicazione, io mi faccio bambino e scelgo il volto.

I suoi volti sono sempre narrazioni di sofferenza, tormento, sgomento. Se in effetti rappresentano l’essenza delle persone, potremmo definire il suo un lavoro di indagine introspettiva per tirar fuori ciò che l’essere umano tende a nascondere, o anche ciò che il mondo esterno sceglie di non vedere?

Se parliamo di “essenza delle persone”, la complessità di tale essenza include ovviamente sofferenza, tormento e sgomento. Ma la complessità racchiude anche molto altro. I miei volti sono il mio tentativo di rappresentare ciò che oltre quel tormento il mondo sceglie di non vedere, e quando il mondo fa questa scelta si sofferma alla superficie dello sgomento.

I testi poetici che scrive, collegandoli alle opere, sono elaborati con una ricerca di sinteticità ed essenzialità. Anche la scelta di dipingere solo volti appartiene a questa sua visione poetica della vita? Dipingere i volti e basta è ciò che ritiene essenziale per esprimersi?

In sintesi: essenziale oggigiorno è riprendersi il proprio volto, dunque le proprie parole.

In passato ha esplorato la narrazione del paesaggio urbano e, a differenza dei volti elaborati con il bianco e nero e con un uso del colore/non colore (come il seppia) i suoi paesaggi erano intrisi di colorazioni forti, accese, potremmo dire in qualche caso perfino violente. Come mai questa differenza di racconto tra un’ urbanità così fortemente colorata e una visione dell’uomo così tanto grigia?

La mia visione dell’uomo non è grigia. Io rappresento un uomo scolorito dei propri colori, che getta con violenza nell’urbanità. Ciò che oggi per esempio definiamo “città grigie” in realtà altro non è che la “volontà” di un uomo grigio. La post-modernità, questo termine così materico, ironicamente vivace di colori, in realtà non è altro che la violenta “rappresentazione” di questa “volontà”. La natura (termine che ha il sapore di una tela antica), invece, resta il giusto mezzo dove l’uomo e il colore sono un saggio equilibrio che non avanza, non invecchia, ma semplicemente vive.

La sua arte è una commistione di immagini, musica e poesia. E’ un modo per valorizzare tutte le sue passioni o crede che un’ immagine senza il suo testo perda la sua identità e di conseguenza il suo valore?

Valorizzare le mie passioni? Non direi, semmai faccio della speculazione: mi faccio specchio. Infatti, se chiudo gli occhi vedo immagini, se mi tappo le orecchie sento la musica del mondo, e se il mondo resta in silenzio da me nascono parole. Per rappresentare verosimilmente questo universo è indispensabile, inevitabile, che io utilizzi tutto ciò che ho, altrimenti farei riflettere il mondo in un specchio rotto. Anche se ogni tanto penso che non sarebbe così sbagliato, perché di questi tempi ci sentiamo tutti a pezzi.

Commenti 2

Gianpaolo Marchesi
11 anni fa
Complimenti!
Teresa Palombini
11 anni fa
Complimenti!

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