Testo Critico - Sandro Parmiggiani - Quel che si offre e si sottrae al nostro sguardo…
Testi critici, Prato, 29 July 2014
Quel che si offre e si sottrae al nostro sguardo…

Sandro Parmiggiani

Nel tempo della vita che scorre in fretta, dell’alluvione di immagini che quotidianamente ci sommergono, dei clamori e dei rumori di fondo che ci assediano, e di una crescente enfasi sull’esigenza di una rapidità di giudizio, di decisione e di azione, Gianni Antenucci ha consapevolmente scelto, e non da oggi, di proporre opere che non puntano, né possono per la loro intrinseca natura farlo, ad abbagliare e a sedurre al primo sguardo, magari dopo avere suscitato un’emozione tanto subitanea quanto volubile ed effimera. Dunque, l’artista non intende ricercare quel consenso immediato che ampiamente viene tributato a opere di scarsa o assai dubbia qualità, quando la modesta cultura e preparazione artistica di chi guarda è indotta a soffermarsi su qualcosa che richiama alla mente il già visto, il già interiorizzato, e non viene richiesto nessun particolare sforzo di comprensione, di penetrazione dentro i misteri dell’opera, che pure magari si presenta con sembianze inconsuete, nuove. S’aggiunga che, nel grande arcipelago dell’arte, altre impetuose correnti s’oppongono a un’esperienza autentica di rapporto con l’opera nella sua intrinseca verità: la frenesia delle mode, le speculazioni di un mercato che semina illusioni e ama abbagliare, il progressivo abbandono dell’esigenza di fare le proprie scelte sulla base di un’autonoma educazione culturale e sentimentale, per affidarsi al “così fan tutti”…
Antenucci sa bene che nel cammino intrapreso dovrà affrontare venti e maree ostili, eppure da alcuni anni persegue tenacemente approdi che sono di ardua lettura e decifrazione, e, per di più, con una assai difficile riproducibilità delle stesse immagini da lui create. Solo sulla base di una convinzione tenace, di un’esigenza profonda, si può spiegare quello che l’artista va sperimentando: racchiudere in una sorta di contenitore che, per il processo di satinatura a mano all’esterno e di rigatura all’interno che lui stesso compie, opacizza le superfici trasparenti del plexiglass, offusca la percezione di ciò che lui ha dipinto e poi racchiuso all’interno, e che simbolicamente assume così la duplice caratteristica di inaccessibilità e di mistero. È come se noi guardassimo da una fessura, tra gli interstizi di una barriera: lampi di una visione che dobbiamo ricongiungere, come avviene nei fotogrammi di un film; tracce, residui di qualcosa che si è condensato, che è precipitato in una forma che diventa così strumento di riflessione, luogo di domande e che, dunque, richiede una rivisitazione ripetuta e prolungata nel tempo.
Non casualmente, credo, Antenucci ha fatto spesso ricorso, anche se non esclusivo, all’immagine dipinta del cuore, di un cuore che mostra, come i salici potati lungo i fossi della nostra infanzia, le arterie che ad esso conducono il sangue e lo smistano in ogni parte del corpo. Al di là dell’utilizzo di quell’immagine in tanti ex-voto, o nell’icona un tempo così celebre e venerata del Sacro Cuore, credo che l’artista abbia scelto il cuore come emblema della forza vitale che sovrintende alla vita umana e che continuamente pulsa e irradia vita. Del resto, le immagini “ibernate” di Antenucci emettono pulsazioni e vibrazioni: in un tempo in cui, per di più, il vedere si oscura, non possiamo pensare di appropriarcene con uno sguardo fugace, un “passare accanto” ed “andare oltre”, ma attraverso un lungo processo di confronto, di sguardo, che sappia, insieme, superare le barriere di visibilità poste dall’artista e comprendere che quel fatto pittorico che a noi si mostra dietro le opacità di una barriera, quella visione che continuamente a noi si offre, si dona, e si sottrae, reca in sé alcune delle chiavi che ci permettono di avere una qualità dello sguardo che non s’accontenti della superficie o dei dettagli, ma che punti al “cuore” del vedere.

Ho avuto modo di vedere, riprodotti, i quadri che, una quindicina di anni fa, segnarono una svolta nell’allora breve percorso dell’artista: dipinti materici e grumosi, in cui faceva ricorso anche alla sabbia, che lasciavano intravvedere, dentro la distesa di una sorta di cupo, talvolta bituminoso, colore di fondo, delle icone colorate, “orme della memoria” riaffiorate dal fondo, che avevano tenacemente perseguito la ricerca della luce della visibilità. Tra quel ciclo di opere e quelle recenti di Antenucci c’è una sottile continuità, anche se ora lui si concentra su una sola icona, la esalta offrendole la totalità del palcoscenico ma nello stesso tempo ne smorza l’impatto, in una sorta di esercizio di autocontrollo e di raffreddamento delle emozioni. In un qualche modo, l’artista ha afferrato una di quelle sue antiche icone e l’ha ricollocata al di là di un confine, dietro una cortina, non per mortificarla, ma per esaltarne la capacità di parlare – esperienze che, comunque, esigono un ‘ascolto’ che troppo spesso, nella società contemporanea, non c’è. Oltre a immagini riconoscibili (il cuore di cui già si diceva, fiori su degli steli, due mani che offrono, forme geometriche ellittiche o sovrapposte a formare una sorta di puzzle visivo), raffigurate dentro un’aura tonale (azzurra, viola, rossa, verde, gialla), ci sono elementi che possiamo associare alle gocce o alle condensazioni proprie del transito, nella sua duplice direzione, tra acqua e ghiaccio, o ai processi di bruciatura di un materiale plastico, o ancora allo sfarfallio di qualcosa in metamorfosi, che sta alternativamente procedendo verso la costituzione o la disgregazione. Fanno talvolta, questi elementi, da ghirlanda a un’icona centrale, che diventa allora ancora più larvale e misteriosa; ricordano i dipinti antichi in cui un’immagine religiosa era contornata da fiori, in un’aperta esaltazione della figura divina. In queste opere di Antenucci gli elementi cui abbiamo accennato paiono metterci sull’avviso che su ciò che lui ha bloccato nel suo smorzato fulgore incombe la minaccia di una possibile disgregazione, o almeno segnalarci che la sua preservazione nel tempo non è scontata, e che dunque occorre avvicinarvisi e cogliere il senso profondo di quell’immagine che a noi si mostra.
Come si è avuto modo di vedere, tante sono le considerazioni che i dipinti dell’artista, con questa sua scelta di incapsulamento e di presentazione, possono fare sorgere e sviluppare: le forme primordiali che lui ha scelto di rappresentare tramite la pittura e il collage, e che ha racchiuso in una sorta di sacrario protettivo, vanno difese e conservate, non possono diventare preda dello sperpero e del consumo inconsapevole che caratterizzano tanta parte del vivere contemporaneo.

Il tempo corrode, cancella, annienta esistenze e esperienze, che vivono sotto lo scacco dell’approdo a un oblio perenne, ma che talvolta resistono come lacerti su cui sempre s’innesta il nuovo, e la stessa possibilità dell’affermarsi della vita. Il tempo plasma, cambia, immerge nella metamorfosi e nel divenire perenne tutto ciò che si srotola dentro il suo incessante corso: dunque, conservare le tracce della vita o i frammenti di ciò che potremmo chiamare bellezza può fare germinare il volto del futuro che sarà.
Antenucci pare essere in sintonia con alcuni dei pensieri di una grandissimo artista e ‘filosofo’, Georges Braque, che nel suo Cahier si era appuntato, tra gli altri aforismi, questa frase: “il pittore non cerca la ricostituzione di un aneddoto, ma la costituzione di un fatto pittorico”. E ancora Braque diceva a John Richardson, nell’intervista pubblicata su “The Observer” il 1 dicembre 1957: “L’unica cosa valida in arte è quella che non può essere spiegata […] Se non c’è mistero, non c’è ‘poesia’, la qualità che apprezzo sopra ogni cosa in arte. Che cosa intendo con ‘poesia’? È per un dipinto ciò che la vita è per l’uomo… Per me è una questione di armonia, di rapporti, di ritmo e – la cosa più importante nel mio stesso lavoro – di ‘metamorfosi’”. Antenucci, in verità, ha solo in apparenza bloccato l’eterno divenire della metamorfosi, lo scorrere della vita, collocando in una sorta di contenitore blindato ciò che altrimenti potrebbe essere corroso e inghiottito dalle fauci del tempo, ma ci vuole offrire la possibilità di un’esperienza dello sguardo che sappia nutrirsi del mistero di ciò che, pur incapsulato e schermato, palpita dal profondo di vita, irradia il senso di una verità che non ha necessariamente bisogno dell’opulenza delle forme o dell’accensione di un colore. La poesia si fa anche con una sola parola, con un rigo o una frase appena: braci che ardono sotto la cenere, scintille e bagliori tenui che vengono da lontano, voci sommesse che parlano dal profondo.

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